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I luoghi comuni sono gabbie. Il mondo mercificato fa schifo. Il “bello scrivere” è ammorbante. Bisogna quindi creare circostanze per rompere con tutte le parole edulcorate, riportando la poesia al suo significato più vero: di attitudine gioiosa e critica verso la bellezza possibile del mondo e delle relazioni tra viventi.
In tutte le espressioni dell’uomo contemporaneo, c’è sicuramente un’estremizzazione delle forme e un’opera di sfiancamento ai danni del significante; movimenti, questi, che nascono dall’incessante ricombinazione del valore ordita dai processi capitalisti e dalle contraddizioni sociali che essa innesca. Il capitale e lo Stato, non potendo permettere un’affermazione senza limiti dei viventi, ne rendono liberi i singoli frammenti di vita. La continuità tra i viventi – tra i potenziali amanti e amici – è sostituita quindi da molteplici, indistinte reattività episodiche.
Nella bellezza e nella responsabilità del vivere non esiste più un rigore, un ritmo, bensì un insieme di rigidità spacciate per altrettante occasioni di abbellimento della propria gabbia sociale. L’amore e la poesia sono diventati moneta di scambio, “equivalenti generali” dei sentimenti, allo stesso modo in cui il denaro lo è per tutte le merci in ambito economico. Ogni frammento di bellezza, o di poesia comunemente intesa, ne converte un altro. Siamo al paradosso di un dato poetico che si diffonde sempre più, democratizzandosi, edulcorando l’alienazione della quotidianità, e quindi aumentandone il fascino simbolico (il valore). In tutto questo, risulta sempre più difficile comprendere, incarnare, sviluppare il senso della vita, soprattutto da quando la frammentazione degli elementi estetici, grazie alle nuove potenzialità tecnologiche, produce innumerevoli combinatorie poetiche, sempre diverse e sempre aleatorie, a scapito di una compiuta realizzazione dell’esperienza umana. I sovversivi del presente e del futuro sono allora costretti a mettere radicalmente in discussione tutti i fondamenti degli affetti umani e, di conseguenza, anche i diversi modi usati per manifestare esteticamente quegli stessi affetti.
Se la bellezza è in crisi da tempo, bisognerà criticare ampiamente la bellezza. Se la poesia annoia, bisognerà lasciarla al nemico e inventarsi nuove mappe. In un territorio colonizzato dalla morte, non si potrà più leggere Péret o Lautréamont impunemente.

La compiutezza dell’esperienza umana non consiste in una qualche astratta totalità, ma in una tensione verso l’accoglimento, da parte dell’uomo, di tutto il meglio e il meraviglioso possibili in una data relazione col mondo. Gli strumenti di conoscenza possono concorrere felicemente all’abbattimento delle subordinazioni e delle separazioni che alienano i viventi, ma solo se non vengono subordinati a loro volta alle strutture di ciò che viene combattuto.
Non si abbatte lo Stato insegnando all’università. Non si fa la rivoluzione pubblicando per una casa editrice controllata da un partito o da un grosso politicante. All’interno di dinamiche autoritarie, esiste soltanto una poesia servile. Il poeta non può diventare il turiferario di un partito, di una Chiesa, di un’ideologia, né tanto meno rintanarsi in una bohème abbrutente, in un nichilismo domestico, individualizzante, o in una diuturna riproposizione dei propri tic letterari.
La compiutezza dell’esperienza umana è tale quando fa emergere perentoriamente una continuità, una unitarietà tra le azioni, i pensieri, la volontà, il desiderio; quando cioè abbatte le separazioni e le mediazioni autoritarie tra gli elementi del mondo al fine di sospendere, rintuzzare, oltrepassare l’alienazione.
Quanti poeti o artisti hanno tentato di soverchiare il possibile senza subordinarsi alla propria opera e mettendosi in gioco lucidamente, gioiosamente? Quanti di loro hanno abbandonato il proprio stagno narcisista allargando l’opera poetica a tutto il possibile (e anche all’impossibile)?
Il poeta non si fa rivoluzionario per partito preso, né il rivoluzionario si fa poeta baloccandosi con gli alessandrini o il verso libero, bensì è l’uomo, a partire dalle contraddizioni dei rapporti sociali, a volersi poeta e rivoluzionario per sovvertire materialmente ciò che subordina i viventi. (…)

Carmine Mangone, estratto da Le licenze poetiche della sovversione, prefazione a: Benjamin Péret, Io non mangio di quel pane (edizioni Matisklo, 2016). Foto: Michal Rovner.

 

 

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