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Importante: la Matisklo ha chiuso i battenti nel marzo 2017. Il libro di Péret può essere quindi acquistano solo contattando me personalmente. Grazie.

< Recensione su Oubliette Magazine, 17 novembre 2016 >

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Benjamin Péret, Io non mangio di quel pane, a cura di Carmine Mangone, Matisklo edizioni, Savona 2016. Nuova traduzione annotata.

Chi volesse averne una copia, può contattarmi via mail all’indirizzo: mangone.carmine@gmail.com, oppure tramite il form che si trova alla pagina Bookshop.

Sul mio blog potete leggere una breve biografia del surrealista francese (confluita nella prefazione a Io non mangio di quel pane), nonché diversi suoi testi seguendo il relativo tag.

Qui di seguito, trovate invece la parte finale della mia prefazione (dove alcune note sono state però omesse). Buona lettura.

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(… ) I testi di Je ne mange pas… sono di chiara ascendenza surrealista. Le invenzioni automatiche che li costellano sono infatti numerosissime e anche fin troppo evidenti per star qui a discuterne. La loro elaborazione parte però invariabilmente da eventi, istituzioni, personaggi famosi, ecc., scelti deliberatamente dall’autore. Péret seleziona con cura i suoi obiettivi e li riunisce non certo a caso; si pensi, ad es., allo sviluppo di composizioni come Il cardinale Mercier è morto, Epitaffio su un monumento ai caduti o Il 6 dicembre. Siamo in presenza di circostanze reali e che determinano gran parte degli elementi creativi, il che ci conduce ad una conclusione quasi ovvia: la raccolta Je ne mange pas… è formata da “scritti di circostanza” lampanti, indiscutibili, quantunque assai diversi rispetto alla poesia sociale o variamente impegnata del Novecento.
Un aspetto fondante di Je ne mange pas… è la mancanza pressoché totale di indicazioni programmatiche o di accenti propagandistici. I versi arrabbiati di Péret appaiono perciò molto diversi rispetto a testi “impegnati” (e allineati) come Front Rouge di Aragon o Lenin di Majakovskij, perché non presentano un secondo fine ideologico e hanno altresì un impatto immaginifico, un’arditezza, una violenza senza padroni che li rende irrecuperabili sia dalla cultura ufficiale, sia dalla controcultura d’accatto più o meno radicale.
Péret non subordina la sua vena poetica ad un fine politico o morale. La getta semmai nel generale movimento di sovversione libertaria del mondo facendola fluire con tutti gli altri elementi di liberazione, senza creare delle gerarchie funzionali tra i diversi piani d’intervento. Lo slancio poetico diventa allora il tentativo – immane – di poetizzare tutto e tutti attraverso quello stesso movimento di sovversione (e perfino suo malgrado).

peretaNell’ambito letterario dell’ultimo secolo, Io non mangio di quel pane è un’opera che finisce per risaltare nettamente. Nessun poeta si è scagliato con un odio altrettanto feroce e gratuito contro i simboli e le istituzioni della società capitalista. Neanche Dada è riuscito a produrre scritti di una tale indigeribilità. Per ciò che concerne le scritture brevi di natura letteraria (poesie, aforismi, canzoni e simili), bisogna infatti risalire molto indietro nel tempo per imbattersi in testi con la medesima gratuità, lo stesso brio e simile violenza terminologica. Nel dominio letterario italiano, ad esempio, occorre riandare al periodo che va dal tardo XIII sec. fino all’avvento della Controriforma tridentina, periodo che comprende una ricca produzione licenziosa e burlesca – basti pensare ad autori come Cecco Angiolieri, Pietro Aretino, il Burchiello, Antonio Cammelli o Nicolò Franco.
Se però usciamo dal campo della letteratura e analizziamo la cultura pop che si è andata sviluppando nella seconda metà del secolo scorso, possiamo reperire agevolmente degli scritti assai vicini allo stile e allo spirito di Je ne mange pas de ce pain-là. In particolare, svariati gruppi rock hanno prodotto testi del tutto simili a quelli di Péret, soprattutto nell’ambiente punk e anarco-punk. Il tentativo di coniugare poesia e forme di teppismo liberatorio in un’ottica rivoluzionaria – perché di questo si tratta –, lo si ritrova chiaramente nei testi di un gran numero di gruppi punk. Mi limito qui a ricordare gli inglesi Crass, forse gli esponenti più noti del punk anarchico, i cui testi presentano una furia, una lucidità e un sarcasmo che non sarebbero affatto dispiaciuti a Benjamin Péret [leggi il testo di Asylum dei Crass].

Giunti a questo punto, possiamo senz’altro fare alcune considerazioni, anche in controtendenza rispetto alle posizioni espresse finora dagli esegeti di Péret.
Io non mangio di quel pane è un’opera quasi unica nel panorama poetico e letterario della contemporaneità. Pur ascrivendosi alla sfera degli scritti di circostanza, essa si distanzia nettamente dalla poesia sociale e “impegnata”, costituendo semmai un ponte, una continuità tra le composizioni oscene e burlesche del Basso Medioevo o del Rinascimento e la cultura rivoluzionaria dell’età contemporanea. L’immediatezza dei toni, la gioia rabbiosa e l’assoluta mancanza di preoccupazioni morali conducono Péret ben oltre i limiti e i tic della poesia comunemente intesa.

I luoghi comuni sono gabbie. Il mondo mercificato fa schifo. Il “bello scrivere” è ammorbante. Bisogna quindi creare circostanze per rompere con tutte le parole edulcorate, riportando la poesia al suo significato più vero: di attitudine gioiosa e critica verso la bellezza possibile del mondo e delle relazioni tra viventi.
In tutte le espressioni dell’uomo contemporaneo, c’è sicuramente un’estremizzazione delle forme e un’opera di sfiancamento ai danni del significante; movimenti, questi, che nascono dall’incessante ricombinazione del valore ordita dai processi capitalisti e dalle contraddizioni sociali che essa innesca. Il capitale e lo Stato, non potendo permettere un’affermazione senza limiti dei viventi, ne rendono liberi i singoli frammenti di vita. La continuità tra i viventi – tra i potenziali amanti e amici – è sostituita quindi da molteplici, indistinte reattività episodiche.
Nella bellezza e nella responsabilità del vivere non esiste più un rigore, un ritmo, bensì un insieme di rigidità spacciate per altrettante occasioni di abbellimento della propria gabbia sociale. L’amore e la poesia sono diventati moneta di scambio, “equivalenti generali” dei sentimenti, allo stesso modo in cui il denaro lo è per tutte le merci in ambito economico. Ogni frammento di bellezza, o di poesia comunemente intesa, ne converte un altro. Siamo al paradosso di un dato poetico che si diffonde sempre più, democratizzandosi, edulcorando l’alienazione della quotidianità, e quindi aumentandone il fascino simbolico (il valore). In tutto questo, risulta sempre più difficile comprendere, incarnare, sviluppare il senso della vita, soprattutto da quando la frammentazione degli elementi estetici, grazie alle nuove potenzialità tecnologiche, produce innumerevoli combinatorie poetiche, sempre diverse e sempre aleatorie, a scapito di una compiuta realizzazione dell’esperienza umana. I sovversivi del presente e del futuro sono allora costretti a mettere radicalmente in discussione tutti i fondamenti degli affetti umani e, di conseguenza, anche i diversi modi usati per manifestare esteticamente quegli stessi affetti.
Se la bellezza è in crisi da tempo, bisognerà criticare ampiamente la bellezza. Se la poesia annoia, bisognerà lasciarla al nemico e inventarsi nuove mappe. In un territorio colonizzato dalla morte, non si potrà più leggere Péret o Lautréamont impunemente.

peretLa compiutezza dell’esperienza umana non consiste in una qualche astratta totalità, ma in una tensione verso l’accoglimento, da parte dell’uomo, di tutto il meglio e il meraviglioso possibili in una data relazione col mondo. Gli strumenti di conoscenza possono concorrere felicemente all’abbattimento delle subordinazioni e delle separazioni che alienano i viventi, ma solo se non vengono subordinati a loro volta alle strutture di ciò che viene combattuto.
Non si abbatte lo Stato insegnando all’università. Non si fa la rivoluzione pubblicando per una casa editrice controllata da un partito o da un grosso politicante. All’interno di dinamiche autoritarie, esiste soltanto una poesia servile. Il poeta non può diventare il turiferario di un partito, di una Chiesa, di un’ideologia, né tanto meno rintanarsi in una bohème abbrutente, in un nichilismo domestico, individualizzante, o in una diuturna riproposizione dei propri tic letterari.
La compiutezza dell’esperienza umana è tale quando fa emergere perentoriamente una continuità, una unitarietà tra le azioni, i pensieri, la volontà, il desiderio; quando cioè abbatte le separazioni e le mediazioni autoritarie tra gli elementi del mondo al fine di sospendere, rintuzzare, oltrepassare l’alienazione.
Quanti poeti o artisti hanno tentato di soverchiare il possibile senza subordinarsi alla propria opera e mettendosi in gioco lucidamente, gioiosamente? Quanti di loro hanno abbandonato il proprio stagno narcisista allargando l’opera poetica a tutto il possibile (e anche all’impossibile)?
Il poeta non si fa rivoluzionario per partito preso, né il rivoluzionario si fa poeta baloccandosi con gli alessandrini o il verso libero, bensì è l’uomo, a partire dalle contraddizioni dei rapporti sociali, a volersi poeta e rivoluzionario per sovvertire materialmente ciò che subordina i viventi.
Péret è stato, senz’alcun dubbio, uno di questi uomini impossibili. La sua attività rivoluzionaria, pur non confondendo mai i diversi ambiti d’intervento, si è sempre contraddistinta per l’approccio unitario e conseguente delle proprie manifestazioni, il che ha salvaguardato e sviluppato senza posa l’unicità e l’incisività della sua presenza.
La partecipazione di Péret alla rivoluzione spagnola del 1936, il suo notorio e feroce anticlericalismo, la sua spumeggiante poesia automatica, la lucidità del suo pensiero, la premura dell’amante, la militanza rivoluzionaria mai venuta meno, le privazioni che ha saputo sormontare, l’interesse antropologico per i nativi d’America, la sua lapide al cimitero di Batignolles, i suoi amici passati presenti e futuri: tutto questo non rappresenta banalmente una biografia o, ancor peggio, una “carriera”. Tutto questo è semplicemente la possibilità della poesia – la compiutezza di una poesia totale, in movimento – che non risparmia nulla e che, a sua volta, con gioia e rigore, viene trasformata in esperienza di vita e di morte dal suo stesso movimento.