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Il terzo paragrafo del mio Quest’amante che si chiama verità (edizioni Gwynplaine, 2014), antologizzato successivamente in Infilare una mano tra le gambe del destino (Asinamali, 2015). Le foto sono di Giovanna Eliantonio.





Se io non partissi dalla volontà di mantenere un’apertura sull’impossibile, non avrei niente per cui vivere, niente da conservare per principio, in quel rapporto col mondo che definisco amore.
L’impossibile non è l’ignoto. L’impossibile è il noto spinto a tali estremi dell’esperienza umana da contendere vasti territori alla morte. D’altronde, la realtà del mondo si muove solo se viene a rompersi incessantemente l’idea che ne abbiamo e che ci vincola ai luoghi consueti del pensiero.
Il percorso che ci porta all’impossibile [può esserci fioritura dal nome più bello?] è già insito nell’esperienza stessa del corpo, dei diversi corpi che assumiamo, attraverso gli orifizî che ci fanno essere esposti, ricettivi, comunicanti, espulsivi.

Il corpo sta per finire? L’amore è destinato a perire per essersi guardato allo specchio troppo a lungo come fece Dio negli occhi strabici delle sue creature?
L’amante non trova mai abbastanza, non si lega mai abbastanza agli spasmi del suo pensiero, preso com’è in un continuo, ingovernabile e arrischiato tentativo di scioglimento (o di accorpamento) dentro la carne poetica dell’amore.

L’irrompere della natura, in un mondo senza più origine, dètta i sussulti che scandiscono il senso. La lettura del corpo si apre all’ignoranza della morte; e qui il mio cazzo, come una sorta d’improvvisato segnalibro, fallirà sempre, perché l’amore scompagina tutto ogni volta. Il racconto muore, ogni racconto della tempesta muore. Nel dominio dell’amore, c’è sempre un’ondata – una sola unica ondata – a decidere per l’intero mare.





Quando urto contro una verità che il vivere non può rispettare – aprendomi ben oltre la qualità dei miei stessi segni – posso sempre dirmi irresponsabile, ma dovrò poi rispondere di questa mia irresponsabilità davanti a coloro che amo.

A furia di pensarti nuda, mentre mi mostri il culo fintamente sbarazzina (come un enigma ogni volta rivelato e che si riproporrà inesausto finché ti amo), a furia di saperti aperta e disponibile, mi viene il cazzo talmente duro da farmi quasi male.
Il mio pensiero urta allora contro il cazzo in erezione e prende a girare in tondo come impazzito. L’autismo del desiderio – inutile accampare concetti contro la perentorietà di ciò che mina il senso dato – è questo spigolo contro il quale vado a sbattere come inebetito dalla carne che mi riempie gli occhi.
Spigolo? Dovrei parlare più propriamente di queste curve, di queste rotondità che fanno ridere il tuo corpo.
La fessura tra le tue natiche è quel sorriso verticale dentro il quale voglio mettere la lingua, le parole, la saliva. Vocabolario osceno, bello da togliere il fiato, che resta muto e senza senso di fronte alla profondità che si rivolta mostrandoti a me.

Adoro vederti a quattro zampe, mezza nuda, che te la ridi guardandomi. Adoro quella posizione. E tu lo sai, lo fai apposta a metterti sul divano o sul letto col culo in aria. La tua intimazione tacita non ha alcuna legittimazione, all’infuori del volermi agitato e divertito.





La parola “libertà” non è abbastanza aperta per dare il senso di questa esposizione, di questa volontà. Il tuo corpo resta sempre un corpo a venire, pur nella presenza, pur nel riempimento del mio campo visivo. Io ti prendo, ma non ti rubo, non posso sottrarti al divenire del tuo culo, dei tuoi spigoli, del tuo senso.
Gattonare sulle parole. Giocare dietro di te. Mettermi a quattro zampe anch’io e leccarti il culo, come fanno i cani.
La conoscenza è soprattutto conoscenza delle porte da sfondare insieme a te.
Siamo animali. Siamo bambini. Siamo sempre ciò che vogliamo essere e che non saremo più quando tutto questo avverrà ben oltre la nostra presenza. Ma la cosa non ci tocca, non ci disturba, perché noi tocchiamo il mondo attraverso l’altro e ne siamo toccati.
Cos’altro potremmo chiedere a questa vita che ci uccide così teneramente?