Un estratto dalla mia prefazione a: Isidore Ducasse conte di Lautréamont, Dieci unghie secche invece di cinque, Giunti, 2005. Lo scritto è stato aggiornato, integrato e ripubblicato a se stante nel 2017. Lo si può acquistare sul web <QUI>. Il détournement del pacchetto di M. che orna il presente post è di Antonello Campus.
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(…) Scrivendo al banchiere Darasse il 12 marzo 1870, Ducasse illustra brevemente le traversie del suo Maldoror e parla di un’opera su cui sta lavorando e che terminerà nel volgere di 4 o 5 mesi; chiede inoltre 200 franchi per stamparne la prefazione di 60 pagine in modo da inviarla al padre, per rassicurarlo sul fatto che lavora e convincerlo parimenti a pagare il seguito della pubblicazione. Nella stessa missiva, ci sono peraltro degli spunti che confluiranno parola per parola in Poésies I («Les gémissements poétiques de ce siècle…», «les Grandes-Têtes-Molles de notre époque»). Venti giorni prima, Ducasse aveva già tratteggiato sommariamente, nella lettera a Poulet-Malassis del 21 febbraio, obiettivi e metodo del nuovo lavoro: «Lei deve sapere che ho rinnegato il mio passato. Non canto più che la speranza; ma, per questo, bisogna anzitutto attaccare il dubbio di questo secolo (malinconie, tristezze, dolori, disperazioni, nitriti lugubri, malvagità artificiali, orgogli puerili, maledizioni buffonesche, ecc.). In un’opera che porterò a Lacroix ai primi di marzo, prendo a parte le più belle poesie di Lamartine, di Victor Hugo, di Alfred de Musset, di Byron e di Baudelaire, e le correggo nel senso della speranza; indico come si sarebbe dovuto fare. Correggo allo stesso tempo 6 fra i brani peggiori del mio benedetto libro».
Nei mesi di aprile e giugno del 1870 escono i due fascicoli di Poésies (che insieme fanno poco più di trenta pagine), i quali per decenni verranno ritenuti impropriamente, da gran parte della critica, quella prefazione cui si riferiva Ducasse [1]. Quest’ultimo, in realtà, aveva abbandonato l’idea di un nuovo ponderoso lavoro (forse perché troppo costoso), optando tipograficamente per una più snella e dinamica «pubblicazione permanente», le Poésies appunto, in cui far confluire col tempo i risultati della sua convulsa ricerca poetica.
Il fine dichiarato di Ducasse – “attaccare il dubbio” per “cantare la speranza” – è il filo rosso che lega i due numeri di Poésies: costruzione appena abbozzata di una poesia raziocinante che mira a stigmatizzare la frivolezza di chi, accontentandosi di fare letteratura, si rivolta contro Dio, l’uomo e il mondo. Nel primo numero, l’attacco contro le immagini e gli araldi del “dubbio” è quanto mai puntuale, feroce, senza alcun cedimento. Basterebbe il solo elenco iniziale, di oltre un centinaio di tic letterari dell’epoca, per fare di Poésies I un caposaldo imprescindibile della critica moderna [2]. E che dire della folgorante serie di epiteti affibbiati alle Grandes-Têtes-Molles? Nessuno tra i maggiori letterati dell’Ottocento sembra salvarsi. Il sarcasmo di Ducasse è travolgente. Ai suoi occhi c’è troppa letteratura d’occasione, ed è per giunta brutta, malfatta, indigeribile. Il romanzo poi è morto, è «un genere falso», addirittura immorale. Quanto ai poeti, la loro inclinazione a cantare il dolore e le brutture della vita va combattuta con estremo rigore, in modo da lasciare il posto alla creazione del “bene”. Insomma, sembra quasi che per Ducasse tutta la letteratura sia ormai di troppo e che ci sia bisogno di una radicale palingenesi.
L’azione del poeta si pone quindi in un rapporto dinamico con l’esistente, dandosi come obiettivo primario lo sviluppo del sapere acquisito, anche di quello fintamente alternativo alla logica dominante, e per fare ciò adotta la massima – lo stile aforistico – come forma ideale del pensiero [3], intervenendo direttamente sul corso delle idee (ovvero sulla loro formulazione) attraverso la tecnica del plagio.
Il metodo è esposto succintamente, ma con grande chiarezza, in tre capoversi di Poésies II: «Le parole che esprimono il male sono destinate ad assumere un significato utile. Le idee migliorano. Il senso delle parole vi partecipa. | Il plagio è necessario. Il progresso lo implica. Esso incalza la frase di un autore, si serve delle sue espressioni, cancella un’idea falsa, la sostituisce con l’idea giusta. | Una massima, per essere ben fatta, non richiede correzioni. Chiede di essere sviluppata» [4].
E Ducasse, in Poésies II, si applica a “sviluppare” il sapere che gli è stato inculcato a scuola (Pascal, Vauvenargues, ecc.), nonché a “correggere nel senso della speranza” quello di autori che ha sicuramente amato (Hugo, Lamartine) e persino a rimaneggiare un brano del suo Maldoror [5] – opera che già conteneva, come si è detto, numerosi plagi non dichiarati.
La parola plagio viene dal tardo latino plàgium, che designava il delitto di chi riduceva in schiavitù un uomo libero, oppure sottraeva servi o bestiame ad altri, significato che ritroviamo ancora oggi nell’accezione giuridica di plagio come “illecito assoggettamento di una persona tramite la privazione di ogni sua autonomia di giudizio e d’iniziativa”. Il latino plàgium, a sua volta, aveva origine dal greco plàgion, che significava “cosa fraudolenta, dolosa, obliqua”. Da plàgium è derivato plagiàrius, che in Marziale diventa “ladro di libri” [6].
La ragione della poesia si mette in marcia. Fomenta la critica. Rigenera concetti. Si serve abusivamente delle idee. Non ha indugi nel sovvertire le forme per stabilire un nuovo inizio. Agli occhi dei più, soprattutto dei letterati che mercanteggiano con le parole, il plagio è un lavoro sporco, illecito, inaccettabile, ma in realtà, opponendosi al pressappochismo degli inetti, la ricombinazione critica di idee e forme ormai logore può affinare, ed anche rilanciare, le capacità creative di chi se ne serve.
L’uso del plagio teorizzato da Ducasse è un uso critico, etico, per la soppressione dei ritardi del pensiero, e non certo in funzione del bello in letteratura. Ciò implica che si abbia l’intelligenza, la volontà, la protervia di approfondire le idee – e non che ci si abbandoni ad un mero gusto per la dissacrazione.
Pur partendo dal presupposto che il plagio esiste perché, nell’ambito della società capitalista, esistono i limiti fissati dall’autore e dai suoi diritti, occorre sottolineare che il plagio non è spoliazione, non è appropriazione di ciò che appartiene ad alcuni, bensì movimentazione e sviluppo di ciò che può appartenere a tutti.
In linea teorica, con l’adozione di tecniche plagiariste e un minimo di cognizioni, chiunque può diventare scrittore, artista, “ladro di fuoco”; tuttavia, restando nell’ambito ristretto della creazione estetica, non tutti saranno capaci di generare esperienze in grado di muovere il mondo o il pensiero dell’uomo. Qui non si tratta di democratizzare, di socializzare il più possibile l’arte, o almeno non soltanto di questo. L’enfasi va posta, anziché sul soggetto creatore che si rigenera ad ogni nuovo montaggio del sapere, soprattutto sulla padronanza e la dinamicità delle idee che possono condurre gli uomini ad avventure collettive e ricche di senso.
In parole povere, il plagio è una tecnica di movimento – di “progresso” –, non un semplice procedimento artistico. (…)
[2] Curiosamente, l’inventario di Ducasse sembra ricalcare a meraviglia anche la letteratura di genere della nostra epoca (romanzi noir, polizieschi, pulp, ecc.).
[3] «Un ragionamento si completa quanto più s’avvicina alla massima», scrive Ducasse in Poésies II.
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