Proprio in quel luogo della nostra presenza che rende la mia e la tua carne al destino – a ciò che imperfettamente ancora chiamo destino, ossia all’andamento irriducibile di un mondo passato, presente e futuro dove questa carne, questa materia del mondo fa l’amore con noi e col tutto che siamo e che non possiamo non pensare senz’imbastire una radialità ingovernabile del pensiero –, proprio in quel luogo sta la labile verità che ci fa vivere chiaramente (pur nell’immediatezza primitiva dell’esperienza sensibile) la prassi comunizzatrice dei corpi.
Screditando la produzione sociale dell’isolamento e facendo professione d’unicità, usciamo dal linguaggio cristiano e romantico per assumere l’ironia del cazzo e la giocosa radicalità della fica.
L’amore non è meramente duale, né tanto meno dicotomico, perché in esso, e negli amplessi di ogni forma e determinazione, c’è sempre una comunità possibile col vivente che urge.
La fica non è un’idea morale, non materializza un ideale astratto. Si ha una perdita di contatto della prassi – e l’avvento di un falsa coscienza – solo nell’isolamento speculativo dei dati affettivi.
Il mio gesto carnale (o la mia parola itifallica) si vuole come rovescio del valore e della poesia morta dei poeti tutte le volte in cui la nostra comune sostanza si ritrovi agglomerata in un’intensità senza argini, gratuita, non programmabile.
Quando l’amore carnale dimostra con il suo stesso movimento che il pensiero della comunità non è stato archiviato, la smentita del fallimento è anche la conferma della prassi.
La tua fica trasforma la mia interpretazione del mondo. Il suo aprirsi evoca l’unità reale che andrà generalizzata, ossia il divenire della negazione che è unicamente nella misura in cui sopprime l’Essere esaltando la comunanza.
24 agosto 2012. Frammento confluito in Quest’amante che si chiama verità (Gwynplaine, 2014). Le illustrazioni sono opere “shunga” di Senju Horimatsu.