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Un corposo estratto dal mio saggio Contro ogni alienazione, II (scritto che accompagna l’edizione Gwynplaine di Dallo sciopero selvaggio all’autogestione generalizzata di Ratgeb/Vaneigem, pubblicato nel marzo 2013). Il mio scritto si pone come tentativo di sintesi estrema dei punti che ritengo essenziali per un rinnovato discorso sovversivo e libertario. Avevo bisogno di fare chiarezza dentro di me e intorno a me. E quindi ho cercato di ripartire dall’ABC, ossia da ciò che si può pensare in chiave rivoluzionaria, da ciò su cui si può agire, dai meccanismi fondamentali della società capitalista e della civiltà umana che data dal Neolitico. Correndo il rischio di risultare pedante o didascalico, ho affrontato temi come l’amore, il capitale, la gratuità, il denaro, il sabotaggio, la comunizzazione anarchica, l’unicità, la transizione, il senso del mondo, il fare teoria, l’anticapitalismo, ecc. In qualche modo, quindi, ho “ricombinato” le mie idee degli ultimi 25 anni, pronto a fare nuovamente la mia parte per la costruzione e la condivisione di una prassi che si ponga come rottura decisiva (e gioiosa) con l’esistente. Nelle prossime settimane, pubblicherò altri frammenti del testo – su sabotaggio e comunizzazione -, nonché alcuni passi del “Ratgeb” e della nuova introduzione di Vaneigem. Buona lettura a voi tutti (e ben vengano commenti e critiche).

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cover-ratgeb(…) Nella società dominata dal capitale, la merce è qualcosa di duplice, in quanto formata da valore d’uso e valore di scambio.
Il valore d’uso di una cosa è determinato dall’attività produttiva umana che lo ha posto in essere direttamente attraverso quella stessa cosa e rimane legato al fine immediato di quest’ultima, mentre il valore di scambio è astratto, mero quantum di lavoro umano cristallizzato, nonché misura sociale di ogni lavoro. Il valore di scambio nasce infatti dalla circolazione del valore d’uso, ossia dal confronto “storico” tra i valori d’uso dei vari prodotti, il quale porta all’equiparazione delle merci e alle condizioni generali dello scambio. Il denaro, in questo processo, è la merce che diventa equivalente generale di tutte le merci, vale a dire quella particolare forma di merce che permuta, allo stesso tempo e in ogni momento, tutte le altre. La successiva forma di circolazione, che porta il denaro a comprare merci per rivenderle in cambio di denaro, è già in sé avvento del capitale.
Operare una secessione rispetto al capitale significa quindi l’eliminazione di ogni forma di circolazione del valore (e del denaro). Il che vuol dire far proliferare quelle attività umane che producono manufatti, idee e relazioni che sono immediatamente fruibili nello spazio comunitario di riferimento e che mirano, altresì, alla più completa autosufficienza e autonomia delle forme di vita impegnate. Vuol dire anche, in termini strettamente operativi, inventariare e rimettere in pratica i saperi originari legati alla produzione diretta del cibo, del vestiario, dell’energia, degli strumenti di lavoro, delle tecniche abitative, ecc., in modo da produrre il più possibile per sé, non per il mercato. Vuol dire, inoltre, un’applicazione smodata della gratuità, del dono e dell’unicità insita in ogni vivente, da considerare come altrettante “qualità” su cui fondare un nuovo modo di gestione generale delle attività umane particolari.
La gratuità, in tutte le sue accezioni, purché sganciata chiaramente da ogni proposito di autovalorizzazione, è una delle condizioni necessarie per innescare dei processi realmente alternativi alla disumanità delle forme economiche susseguitesi dal Neolitico in poi.
Gratuito è il carattere di ciò che è senza prezzo, di ciò che viene introdotto nelle relazioni umane senza la necessità di una contropartita; ma gratuito è anche ciò che resta immotivato, inatteso, asimmetrico, e spesso del tutto fine a se stesso. Per cui, la natura della gratuità fa sì che essa, restando tale, non sia affatto valorizzabile oltre l’immediato. D’altronde, la vera gratuità è solo quella che interrompe i processi di valorizzazione e di riproduzione del capitale (per intenderci: donare una somma di denaro che sarà comunque spesa o investita non è vera gratuità; bruciare dei titoli al portatore o coltivare dei pomodori in uno spazio occupato per poi regalarli alla comunità, invece sì).
I flussi della gratuità rappresentano per il capitale una sorta di buco nero, perché sottraggono materia ed energie alla valorizzazione sociale ed astratta dell’esistente, e perciò vanno recuperati e reinseriti opportunamente nella circolazione del valore; il che spiega il sempre maggiore interesse di economisti e potenti nei confronti di certi concetti (emblematica resta Caritas in veritate, un’enciclica del 2009 di Benedetto XVI, che sostanzialmente auspica il profittevole connubio di capitale e gratuità in quel “terzo settore” governato soprattutto dalla Chiesa: «La vittoria sul sottosviluppo richiede di agire non solo sul miglioramento delle transazioni fondate sullo scambio, non solo sui trasferimenti delle strutture assistenziali di natura pubblica, ma soprattutto sulla progressiva apertura, in contesto mondiale, a forme di attività economica caratterizzate da quote di gratuità e di comunione. Il binomio esclusivo mercato-Stato corrode la socialità, mentre le forme economiche solidali, che trovano il loro terreno migliore nella società civile senza ridursi ad essa, creano socialità. Il mercato della gratuità non esiste e non si possono disporre per legge atteggiamenti gratuiti. Eppure sia il mercato sia la politica hanno bisogno di persone aperte al dono reciproco.», § 39. E che dire dell’economia “di comunione” del movimento cattolico dei Focolari? Qui il capitale è “opera di Dio”, management in salsa umanitaria per il varo di un capitalismo missionario e ammansito).
La gratuità si esplica molto spesso attraverso il dono, tuttavia non andrebbe mai posta in rapporto con forme di reciprocità automatiche o forzose, pena la decadenza del gratuito in processi di valorizzazione o speculazione (di natura economica, psicologica, sentimentale, ecc.) che obbligano il ricevente ad assumere una posizione subordinata o a produrre una contropartita, un corrispettivo. Il senso del dono va quindi disambiguato. La reciprocità tra donatore e donatario non pone alcun limite, soprattutto nel rovesciamento eventuale delle parti, ma deve poter esaurire l’eccedenza creata dal dono unicamente in un uso volontario e diretto degli elementi oggetto della transazione, permettendo alle parti in gioco, quando lo vogliano, di riprendersi totalmente dal rapporto in atto, senza per questo venirne diminuite; sicché è fondamentale lo sganciamento del dono da ogni aspettativa di reciprocità che neghi una reale e condivisa rispondenza tra le parti, tenuto conto che la vera finalità del dono è sempre un’affermazione e un’armonizzazione delle diverse unicità agenti (di chi dona, di chi riceve, di chi rilancia), e non certo un riconoscimento sociale. Proprio per questo, contrariamente alle posizioni di Marcel Mauss, che riteneva il dono un “fatto sociale totale”, ossia un collante rituale e morale dell’intera società (tipo il potlatch dei nativi nordamericani o il kula delle isole Trobriand), si deve invece poter pensare e attuare il dono, molto più umanamente, come gesto comunizzatore totale.
È solo con l’umanità affermante se stessa nel dono, e donandosi in relazioni nient’affatto astratte o egoistiche, che emerge la continuità appassionante tra presenza della vita e unicità della presenza. Immaginare una serie di atti gratuiti all’insegna dell’affettuosità, legati tra loro da una limpidezza critica e amorosa, è pensare già l’aspetto singolare della comunizzazione anarchica.
Non è difficile ipotizzare la realizzazione di piccole comunità umane in cui le transazioni che hanno per oggetto i beni prodotti, le passioni, i sentimenti – in una parola: tutte le dinamiche che implicano un passaggio di “cose”, di elementi “oggettivati” – possano avvenire senza denaro, ossia senza la mediazione di un equivalente generale astratto. Ben altra difficoltà comporta invece la produzione su vasta scala di una rete sociale di accordi che facciano a meno dei processi monetari e mercantili. Le piccole comunità senza denaro andrebbero unite in federazioni sempre più ampie, annullando fin da subito ogni forma di permeabilità nei confronti della valorizzazione capitalista, il che implica senz’altro l’adozione di un atteggiamento radicalmente nuovo nei confronti dell’esistente, teso soprattutto a salvaguardare l’unicità creativa di ogni individualità e gruppo di viventi. Va da sé che ciò può avvenire solo diminuendo progressivamente la curva demografica della popolazione mondiale e sopprimendo tutte le produzioni materiali e immateriali che risultano superflue ai fini di una condivisione armoniosa dell’esistente all’interno delle comunità.
La gratuità non è facile, e applicarla con costanza, in modo da generalizzarne i flussi creativi, richiede un decisivo scarto rispetto al mondo del valore. Anche nelle più grandi sperimentazioni sociali rivoluzionarie, come ad esempio le collettività anarchiche spagnole del 1936-37, si sono avute delle notevoli incertezze nell’adozione di transazioni umane non mediate dal denaro, spesso ricorrendo a buoni di lavoro (che permettevano il consumo, in un dato intervallo di tempo, della stessa quantità di ricchezza sociale creata dal lavoratore) o a forme di valuta monetaria spendibili solo localmente e a certe condizioni, così da evitare il più possibile la spirale dell’accumulazione e dello sfruttamento.
Ad esempio, nella collettività agricola di Peñalba, un piccolo villaggio dell’Aragona, dove nell’estate del ’37 erano presenti circa 500 collettivisti su un totale di 1.500 abitanti, come primo passo fu abolita la moneta nazionale. Successivamente, venne introdotto un salario familiare commisurato al numero di membri della famiglia e spendibile come carnet di buoni unicamente presso i magazzini della collettività. In base a tale formula, ciascun nucleo familiare poteva ottenere quotidianamente una razione di viveri e di altri prodotti in base al salario spettante, ma senza la possibilità di ricevere nei giorni successivi tutto ciò che non era stato ritirato in precedenza, il che generò inizialmente delle forme di accumulazione da parte di chi non si riforniva di proposito, oppure sprechi di derrate deperibili da parte di chi ritirava tutto il dovuto senza però consumarlo. La collettività decise quindi di consentire delle forme limitate di risparmio, scoraggiando viceversa gli sprechi. Ad una data scadenza, tuttavia, chi aveva accumulato dei risparmi era obbligato a ritirare un ammontare equivalente di prodotti, pena la cancellazione delle somme non spese. In tal modo, i collettivisti cercarono di minimizzare i fenomeni di tesaurizzazione e arricchimento individuale a danno della comunità, pur mantenendo il sistema salariale e un larvato valore di scambio, la cui trasformazione in capitale qui si trovava però bloccata, venendosi infatti ad inceppare il processo D-M-D’, ossia la dinamica essenziale della valorizzazione capitalista: il denaro compra merci sul mercato per poi rivenderle e realizzare più denaro grazie ad un surplus di valore [José Peirats (1908-1989), ex segretario della CNT in esilio e storico dell’anarcosindacalismo spagnolo, passa in rassegna una quarantina di esperienze collettiviste in: La C.N.T. nella rivoluzione spagnola, Edizioni Antistato, Milano, 1977 (cfr.: vol. II, cap. 15, “Le collettivizzazioni”, pp. 7-120). Sullo stesso argomento si consiglia caldamente la lettura di: Frank Mintz, Autogestión y anarcosindacalismo en la España revolucionaria, Ediciones Anarres, Buenos Aires, 2008. In Spagna ci furono almeno 750.000 contadini e 1.800.000 operai coinvolti nelle esperienze autogestionarie che s’impiantarono a partire dal luglio 1936, tra cui: 450 collettività agricole nella sola Aragona; 503 collettività agrarie e industriali nel Levante e 560.000 operai collettivisti in Catalogna, all’epoca la regione spagnola  più industrializzata (cfr.: F. Mintz, cit., pp. 101-102)]. (…)