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Frammento confluito in Quest’amante che si chiama verità  (2014) e antologizzato successivamente in Infilare una mano tra le gambe del destino (2015). Illustraz. di Pierre Molinier (1900-1976), artista transgender surrealista.

 

 



Un corpo vive, respira, ansima e si contorce all’interno di un’intelligenza che non ha bisogno di prove, a condizione però di non voler provare nulla, neanche questa condizione.
Cercare il tuo gesto che dice sì; continuamente, ottusamente. Perché il dire di no vincolerebbe la fiducia al riconoscimento di facili sicurezze.
Porre in questione ogni cosa è pressoché inessenziale per costruire l’amore, dato che l’amore è la questione che ci sfuggirà sempre. Il che non implica una necessità della poesia. La violenza del bello è semmai assimilabile ad una freccia scoccata da un arco senza padrone, dove l’arciere e la tensione dell’arco sono già la meta del destino che vi si afferma. Tutto il resto è riconciliazione col movimento, assunzione d’un ritornello.

– Voglio scoparti. A lungo. Fino a farti strepitare il nome delle stelle.

Facevamo sempre la stessa strada per tornare a casa, finché un giorno non ci perdemmo del tutto. Fu una di quelle particolari occasioni in cui la vita si mette a brillare come un fatto. Tu sorridevi. Indossavi il sorriso che hanno i papaveri al cospetto della falce. Eri tutta la filosofia che non muore in un libro, e anche la storia da fare, che si va facendo, qui, mentre ti silenzio le ansie del giorno con l’eccetera che seguirà.
Tutto questo non può bastare, ne convengo, ma ciò che s’impone non è un basto, né una questua. Fornicare con le nuvole, s’era detto. Sarai la burrasca, la cascata, il sogno, ecc.

22, 26 novembre 2012



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