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{ Alcuni corposi estratti dal mio scritto Invito al sabotaggio ad uso dei ricchi di spirito, incluso nel volume: Sabotaggio mon amour, Gwynplaine edizioni, 2013, pp. 119-150. Ho qui omesso i tanti riferimenti alla teoria del sabotaggio rivoluzionario (Émile Pouget, IWW, ecc.), nonché gli aneddoti e le parti più “leggere” che costellano il saggio. Buona lettura. }

cover-sabotaggioL’uomo civilizzato non costruisce cose e relazioni per servirsene direttamente, bensì per produrre mediazioni tra i propri limiti individuali e le necessità storiche della società in cui vive. In altre parole, gli strumenti creati dall’ingegno umano diventano protesi, legittimazioni, connessioni forzose con il mondo, e sono tanto più alienanti quanto più si rivelano necessari al riconoscimento di un senso, di un’identità sociale.
Tutte le insurrezioni dell’uomo nascono quindi dal bisogno o dal desiderio di abbattere le mediazioni che lo imbrigliano: gerarchie, patriarcato, Stato, capitale. Quando la misura è colma, le singolarità individuali o comunitarie ingaggiano battaglia contro le regolazioni sociali, inventano tattiche per difendersi o attaccare, cercano affinità e complici per sviluppare la lotta. Passare la misura stabilita dal contratto sociale, innesca a livello individuale una dinamica di rivolta, una rottura. Quando poi le rivolte individuali autocoscienti (le microinsurrezioni) si addensano intorno ad una volontà liberatoria di natura comune, si ha lo sviluppo di processi insurrezionali di massa che possono condurre a vere e proprie rivoluzioni sociali.
Ogni processo di radicale trasformazione della comunità umana è sempre un’intersezione di svariate linee di cambiamento, un addensamento di intensità e facoltà umane che comunizza le loro espressioni rilanciandole ben oltre il proprio campo di origine o di applicazione.
Ogni rivoluzione, ogni insurrezione che si generalizza orizzontalmente, è data infatti dall’affiorare di un piano intensivo su cui si dispongono e si dispiegano molteplici microinsurrezioni.
La microinsurrezione è un moto specifico di emergenza delle singolarità, nonché di ricomposizione comune delle loro realtà – un venir meno quindi della frammentarietà, dell’alienazione sociale – attraverso la costruzione autocosciente (l’autoproduzione) di un flusso di continuità tra gli elementi vitali del mondo; flusso che elude i meccanismi politici di gestione del rifiuto cercando allo stesso tempo di porsi decisamente altrove rispetto all’omeostasi autoritaria del capitale.
Se la rivolta nichilista si esaurisce in se stessa riformulando sterilmente o esteticamente l’individualismo del mondo borghese, la microinsurrezione porta con sé già il riconoscimento di una continuità con le altre possibili ribellioni singolari, si pone già in un’apertura e in una determinazione capaci di addensarla intorno ad un proposito collettivo, allargato, sovraindividuale. La microinsurrezione è la rivolta che prende atto della sua possibile generalizzazione. Ed è proprio in questo suo tendere all’unione e al potenziamento dei tumulti singolari che può nascere una consistenza per l’insurrezione generalizzata.
La microinsurrezione si differenzia quindi dalla rivolta “eroica”, inconcludente, soprattutto a partire dal suo rifiuto di ogni dovere, di ogni istanza sacrificale (sempre di natura fideistica, ideologica), e ciò in favore di una creatività e di una libera ricerca dell’affinità, della condivisione, della possibile comunanza insurrezionale.
Walker-Smith-Sabotage1913Anziché limitarsi a distruggere, la microinsurrezione evita le dinamiche perdenti, “suicidarie”, e costruisce una trama di possibilità attraverso azioni e idee volte alla riappropriazione diretta dell’esistente. I processi insurrezionali non mettono giudizio. Il loro flusso si separa dalle mediazioni sociali imperanti, le destituisce, le svuota di senso, e così facendo crea una potenza mobile, un’anarchia in movimento, ossia l’unicità in divenire di una comunità senza più padroni. In questo movimento tendenziale verso una comunità unica dei viventi, vengono a cadere le separazioni tra individualità e comunità, tra l’attuale e l’intemporale, tra l’uomo e il suo mettersi in opera astrattamente: ognuno diventa parte di una generalità che si afferma nell’immediato.
Ora, analizzando i processi capitalisti dell’ultimo secolo e lo stadio di sfruttamento del pianeta, appare evidente che il fine e le pulsioni più autentiche dell’uomo risiederanno sempre più nei suoi tentativi di fare a meno del capitale, ossia nel separarsi, nell’autonomizzarsi rispetto alle dinamiche di valorizzazione capitaliste. Siccome il capitale tende all’inorganico e alla virtualità più spinta, mettendo a repentaglio l’autonomia dei viventi e gli stessi processi vitali, l’uomo autocosciente è spinto ineluttabilmente a trovare delle soluzioni per “decapitalizzare” il mondo.
In ogni situazione storica, emergono o persistono elementi di critica e di rottura insurrezionale all’interno delle relazioni umane. Anche quando la trasformazione radicale non accade, anche quando essa non si sostanzia socialmente, il suo possibile continua a vivere in ogni movimento di rifiuto delle mediazioni sociali. Il che implica, per chiunque ambisca ad una comunità umana senza capitale né padroni, il farsi carico di alcuni problemi teorico-pratici, ossia: rintracciare ed esaltare gli elementi microinsurrezionali in ogni ambito umano; capire come poterli connettere tra loro per potenziarli vicendevolmente; sviluppare le dinamiche di rottura per passare dalla rivolta individuale all’insurrezione collettiva. (…)
Nel processo capitalista, sono le cose – ossia le merci, il denaro come merce universale – a dare un prezzo agli uomini e alle loro vite; sono le merci, in quanto cose valorizzate a priori e in astratto, a scambiare universalmente gli uomini. Ecco il perché dell’odio che può manifestarsi nei confronti delle cose e degli elementi ridotti a cose. Ecco il luogo comune dello sfruttamento dove prende forma e consistenza il disprezzo verso le merci. Chi viene sfruttato per produrre e consumare cose, può infatti decidere di non assecondare in tutto e per tutto il proprio sfruttamento. C’è chi si arma di idee, fantasia e destrezza onde riappropriarsi d’una parte di sé. Distruggere le merci, rallentarne la produzione o migliorarne la qualità in un modo non profittevole per il capitale, sono altrettante modalità per aprire una breccia, per scoprire le aree di inconsistenza del nemico, per sondare la propria potenza e metterla in circolo. (…)
Per violenza, in senso generale, va intesa un’applicazione di forze finalizzata alla modifica perentoria (alla “forzatura”) di uno stato fisico, di un ambiente sociale.
Se la violenza si colloca entro una legittimità codificata dal diritto naturale o positivo, è sempre la manifestazione di una forza che emana da un potere, il quale può essere beninteso anche embrionale, anche in fieri. In caso contrario, qualora il suo scatenarsi non preservi o ponga in essere alcun dispositivo giuridico, la violenza sarà un insieme di forze tendenzialmente anarchiche e che si oppongono ai poteri costituiti.
Partendo da fini che si presumono giusti o da mezzi che si ritengono legittimi, la violenza viene quindi avvallata e indirizzata, nella stragrande maggioranza dei casi, o da un potere o da flussi di rottura della norma. Nel secondo caso, quando il movimento di rifiuto si allarga e si radicalizza su scala sociale, si può passare da trasgressioni episodiche, di natura “criminosa”, ad un flusso insurrezionale endemico, cosciente, unitario.
C’è quindi una violenza che fonda e conserva il potere e c’è una violenza che afferma dinamiche di liberazione senza porsi alcun limite “giuridico”.
La legittimazione della violenza implica sempre una certa zona di consenso più o meno ampia, la cui gestione pertiene in via esclusiva al potere di regolazione dello Stato. Logicamente, la violenza che contrasta o elude il diritto statale, crea un movimento di disturbo o di sovversione che apre nuove eventualità.
Il movimento della violenza rivoluzionaria rivela sempre una volontà collettiva, una potenza comune. Essa si scaglia contro i limiti imposti dal capitale e dallo Stato, ma non si esaurisce nella mera opposizione ad essi. Tende infatti a creare un nuovo piano di comunanze, un rinnovato ambito etico, una sorta di etica in movimento attraverso l’esperienza stessa dei rapporti immediati tra gli umani. In altre parole, la violenza rivoluzionaria crea nuovi rapporti di forze, ma non li cristallizza necessariamente in strutture di diritto. Il che vuol dire anche un’altra cosa: quando il movimento sovversivo giunge a strutturare dei proprî elementi di diritto o un nuovo “contratto sociale”, significa che si sta esaurendo, snaturando, o che è in atto un suo recupero più o meno indolore da parte di vecchi e nuovi poteri.
La prospettiva della sovversione radicale oltrepassa d’un balzo le antinomie violenza/non violenza e legalità/illegalità. Tali dicotomie vengono infatti eluse o infrante in base ai rapporti di forze e alle necessità contingenti della lotta, nonché in riferimento alle possibilità di autonomia immediata nel raggiungimento degli obiettivi strategici del movimento sovversivo.
Nell’ambito socio-politico statalista, la violenza “vera”, cioè quella da stigmatizzare e combattere, è sempre l’applicazione di una forza priva di legittimazione giuridica o contrattuale. Per sua natura, lo Stato vieta e reprime infatti ogni tipo di violenza verso le strutture normate e normative, non potendo di certo tollerare il conseguimento di fini o l’impiego di mezzi che metterebbero a repentaglio quelle strutture stesse.
Eppure, ogni sovversivo libertario sa che non c’è diritto naturale o positivo che tenga, nella lotta contro lo Stato e l’oppressione capitalista. Ogni sovversivo libertario, intessendo comunanze e saperi, cerca di acquisire la potenza necessaria per essere autoprodotto e legittimato dal suo stesso agire, dal suo stesso desiderio condiviso, comunizzato. I limiti della violenza rivoluzionaria derivano dai limiti del movimento sovversivo. Più è forte il movimento, meno ci si perderà in violenze fini a se stesse; più il movimento si sgancia dalle istanze di potere e dai flussi di valorizzazione del capitale, minore sarà la necessità d’affrontare lo Stato sul terreno (ad esso propizio) della guerra civile.
La pratica del sabotaggio rivoluzionario, attaccando le cose e i processi che perpetuano lo sfruttamento, va altresì ad incrinare i meccanismi politico-sindacali della delega, della rappresentanza. E forse sta proprio in questo il “peccato originale” del sabotatore, la colpa che lo rende tanto odioso ai difensori del potere: il suo agire in prima persona, senza mandati né procure, abbattendo sia le mediazioni sociali autoritarie, sia il senso d’impotenza e di subordinazione che esse diffondono. (…)

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Il sabotaggio colpisce la libertà della merce, la libertà di produrre e consumare merci. Nel dominio del capitale, l’uomo è da solo di fronte alle sue merci. Soltanto in rapporto alla merce, soltanto attraverso di essa, l’uomo acquisisce formalmente una libertà. La libertà dell’uomo risiede pertanto nella libertà delle sue merci.
Di conseguenza, il sabotaggio colpisce un elemento fondamentale del processo capitalista. Colpire le merci e i meccanismi di mercificazione dell’esistente, significa attentare direttamente al processo capitalista, al processo di valorizzazione del capitale, dato che la merce, insieme al denaro (suo equivalente generale e merce anch’esso), fa da vettore al valore di scambio che si autonomizza divenendo capitale.
Anche nelle sue manifestazioni episodiche, la violenza rivoluzionaria contro i meccanismi mercantili diverge dai binari consueti della rivendicazione e delle concertazioni sociali rompendo con l’ubiquità del processo di valorizzazione e creando un’area di inconsistenza del capitale. La microinsurrezione sospende l’incessante valorizzazione delle cose e delle relazioni: viene oltrepassata d’un balzo la politica. Le mediazioni e i dispositivi politici lasciano il posto all’immediatezza delle soluzioni. Non si subordina il proprio agire alla regolazione statalista dei conflitti. S’installa l’avventura e la qualità dell’ingovernabile tra le piccole cose quotidiane. Non tutto è in svendita. La totalità astratta del capitale viene intaccata da gesti che non si vogliono sul mercato. Se la merce individualizza gli uomini a partire dal loro potere d’acquisto, se il valore di scambio riduce gli individui al loro potere contrattuale, la microinsurrezione fa riemergere l’unicità immediata e non negoziabile dei viventi. Chi ha detto che bisogna sempre mercanteggiare con la propria umanità per associarsi agli altri? Le idee sovversive sono nelle mani di chiunque abbia a cuore la propria unicità ed agisca nell’immediato, insieme agli altri, per ridurre l’alienazione sociale.
Si comprende quindi perfettamente perché gli atti di violenza rivoluzionaria contro le cose, dal punto di vista del capitale e dello Stato, soprattutto in periodi di apparente “pace sociale”, risultino molto più odiosi ed invisi di qualsiasi contraffazione attuata dai capitalisti a livello produttivo. Un esempio banale: si confrontino le pene comminate in Italia a chi adulterò col metanolo il vino da tavolo facendo 23 morti accertati nel 1986 – i due titolari della ditta Ciravegna, padre e figlio, furono condannati a 14 e 4 anni di reclusione – con le pene inflitte invece ai manifestanti arrestati a Genova nel luglio 2001, alcuni dei quali, condannati per il reato di devastazione e saccheggio, ex art. 419 C.P., hanno da scontare più di dieci anni di carcere. Evidentemente, la distruzione di un blindato dei carabinieri e di qualche negozio, per lo Stato, è più grave di 23 morti. Constatazione forse semplicistica, ma che rende bene l’idea di quelle che sono le priorità dell’apparato giuridico. (…) Non bisogna poi dimenticare le eventuali legislazioni “di emergenza”, come ad esempio le norme anti-terrorismo emanate in molti Stati dopo l’11 settembre 2001 o, per restare in Italia, l’art. 270 bis C.P. introdotto nel 1979 per fronteggiare i gruppi che «si propongono il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico». Nel caso del 270 bis è lampante la criminalizzazione a priori dell’identità e delle idee “eversive”: si viene puniti per ciò che si è, per ciò che ci si “propone”, quindi anche per la semplice partecipazione associativa, a prescindere da ciò che si è compiuto realmente (il che ha portato di sovente a sollevare una questione di legittimità costituzionale, in quanto il 270 bis, come pure il 270, andrebbe a cozzare contro il disposto dell’art. 18 della Costituzione Italiana che garantisce il diritto di associazione); ma d’altronde la criminalizzazione del dissenso radicale avviene ormai anzitutto attraverso l’imposizione politica e comunicazionale di un’identità terroristica, perché il «riuscire ad etichettare la controparte come terrorista (sulla base di una valutazione opportunistica) comporterebbe l’isolamento dei “terroristi” da parte della comunità internazionale e la loro conseguente sconfitta.» (Arnaldo Grilli [generale dei Carabinieri] e Antonio Picci [avvocato penalista e criminologo], Il regno della virtù. Analisi dei fenomeni terroristici, Europolis Editing, 2002).

Il capitale e lo Stato non tollerano alcuna libertà contro le merci, tranne i casi in cui è il capitale stesso a distruggere materie prime o derrate alimentari per tenerne alto il prezzo sul mercato. Il diritto borghese ha come fine evidente, per quanto inconfessato, il mantenimento e lo sviluppo dei processi sociali di valorizzazione. Entro certi limiti, i dispositivi democratici riescono però ad assorbire un quantum di violenza anche assai alto contro cose e relazioni capitaliste; l’importante è che non vengano messi in discussione gli elementi fondamentali del capitale e che non si arrivi ad una convergenza e ad una pericolosa generalizzazione delle microinsurrezioni contro capitale e Stato. Il teppismo, ad esempio, deve restare nella dimensione frustrante e subalterna di uno sfogo fine a se stesso, come atto nichilista del tutto separato da ogni possibile comunizzazione della lotta e da ogni lotta per la comunizzazione. Lo stesso sabotaggio, quando si limita ad una variazione d’intensità della forza-lavoro in chiave ostruzionistica, come nel caso di un rallentamento localizzato del lavoro, oppure di una dilatazione dei tempi di produzione per unità di prodotto (come nel work-to-rule), rimane ancora dentro il quadro economico e produttivista della società, non mettendo affatto in discussione lo sfruttamento e il lavoro salariato, a meno che la tattica di disturbo della valorizzazione capitalista non sia estesa parallelamente e massicciamente a tutte le manifestazioni dell’alienazione sociale: produzione, salariato, mercificazione, consumo, individualismo, massificazione, ecc. (…)
Nella prospettiva di una radicalità anticapitalista, occorre che il sabotaggio sia contemporaneamente metodo di lotta, atteggiamento ludico nel contrastare l’alienazione sociale, nonché strumento per saggiare e rintuzzare i proprî limiti, le proprie paure.
Se vissuti come un primo passo verso la riconquista della propria vita quotidiana, gli atti di sabotaggio possono dare il giusto “tono” al divenire della radicalità, opponendosi giocosamente e lucidamente sia ai rituali di massa della politica (elezioni, manifestazioni di piazza, rivendicazionismo, ecc.), sia ai ritornelli della trasgressione teleguidata.
sabotage-computersAl giorno d’oggi, vista la notevole complessità e la fragilità del sistema di gestione dell’esistente, nonché la sua disseminazione sul territorio, le possibilità di disturbo e di ostruzionismo si sono moltiplicate in modo esponenziale, e possono risultare semplici e ben poco onerose. Sapendo dove mettere le mani, e puntando a non correre troppi rischi, basta un po’ di creatività, qualche oculato acquisto in ferramenta, e magari la vecchia arte del travestimento, per far sì che l’apparato sociale di controllo si riveli grandemente eludibile (Internet ha peraltro diffuso e messo a disposizione di tutti, in questi ultimi decenni, anche il know-how più “spinto”, come ad es. The Anarchist Cookbook di William Powell o i tanti libelli anonimi dei suoi epigoni più o meno radicali e più o meno affidabili).
Contro il capitale cibernetico e la sua politica abiotica del XXI secolo, nonché contro il determinismo residuale delle forze produttive, tanto caro ai materialisti dialettici usciti con le ossa rotte dalle rivoluzioni del Novecento, bisognerà scatenare un sabotaggio diffuso, creativo, ingovernabile, muovendosi come nugoli di vespe attraverso ogni ambito d’intervento umano. Un flusso di atti o di diserzioni senza rimedio dovrà sabotare la produzione, il consumo, la politica, la cultura collaborazionista, l’industria dei divertimenti, il desiderio commercializzato, l’affetto gestito come un valore di scambio, l’identità, la separazione dal bacino comune della vita, le ideologie, l’asservimento al tempo cronologico lineare, la mancanza d’avventura, la paura, il denaro, le opinioni massificanti.
Ogni uomo ha la possibilità di negare, almeno in parte e localmente, la sua subordinazione ai meccanismi alienanti della società, senza pertanto doversi asservire a chi pretende di governare politicamente le dinamiche negatrici.
Ma l’azione non può più limitarsi ad incastrare uno zoccolo nella macchina produttiva. Occorre far sì che la macchina generale della valorizzazione perda terreno in favore di una ricomposizione umana che sia all’insegna della solidarietà e della comunizzazione anarchica; partire dall’asimmetria sfavorevole dei rapporti di forze per annidarsi nelle aree di inconsistenza del nemico; sfuggire all’eroismo masochista di una guerra in campo aperto; fare della leggerezza un’arma micidiale; saper scegliere il proprio terreno di lotta nell’immediato, nella quotidianità, senza esiliarsi in un altrove fatto di mere eventualità.
Non essendoci una forma ideale dell’azione, sarà la pratica a ricreare gli elementi della teoria e a verificarli incessantemente. Ma sarà sempre la teoria a battere il ritmo della volontà, del desiderio, permettendo così la messa a punto della prassi e l’esaudimento della sovversione nell’immediato.
Insomma, una generalizzazione dell’azione diretta in funzione comunizzatrice potrebbe portare allo sviluppo di movimenti di secessione dal capitale, tali da mettere in discussione la totalità dei rapporti alienanti – a partire beninteso dalla divisione sociale del lavoro e dalla subordinazione al salariato –; movimenti che potrebbero essere il primo passo per un rovesciamento radicale di prospettiva e per un attacco diffuso, anonimo e immediato contro i processi di valorizzazione capitalisti o, impiegando modalità affatto diverse, per una radicale assenza di collaborazione nei confronti delle strutture che preservano tali processi.