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Alba, arte contemporanea, Attila Kotányi, autore, autorialità, Internazionale Situazionista, l'infinito srotolamento, Manifesto della pittura industriale, Max Stirner, moneta di choc, Pinot Gallizio, pittura industriale, senso, srotolamento, unicità
L’italiano Giuseppe “Pinot” Gallizio, nella sua breve permanenza all’interno dell’Internazionale Situazionista, di cui era stato membro fondatore a Cosio d’Arroscia il 28 luglio 1957, ideò e sviluppò (letteralmente) la pittura industriale: rotoli di tela dipinti, lunghi decine di metri, oppure arazzi giganteschi, vòlti a coprire le pareti e il soffitto di intere stanze; arte ancora museificabile, certo, e che è stata comunque cooptata all’interno del mondo artistico nei decenni successivi, pur rimanendo difficile da esporre e da vendere, se non a metri, a porzioni.
Il desiderio di Pinot Gallizio, e dei primi sperimentatori del milieu proto-situazionista (come Constant o Asger Jorn), era quello d’invadere lo spazio-tempo convenzionale con elementi artistici, costruendo una continuità tra i luoghi, i momenti e le forme della vita quotidiana tramite ambienti poetici, ibridazioni di bellezza, intasamenti singolari del senso estetico collettivo.
Se la realtà, o ciò che definiamo ancora tale, ci appare insopportabile, grigia, banale; se l’esperienza della virtualità, che è una sorta di escrescenza del reale spalmata in n possibili rappresentazioni, aumenta la distanza tra noi e il nostro mondo anziché vivificarne le relazioni; se non tolleriamo più l’opera che si esplica solo a partire da ruoli specialistici (l’artista, l’autore, il critico/necroforo, l’alchimista del verbo, ecc.): allora bisogna selezionare e mettere in continuità alcuni elementi del mondo attraverso un movimento che li fa emergere, risaltare, mantenendoli nondimeno aperti, disponibili per ulteriori “srotolamenti”.
In biochimica, lo srotolamento (untwisting) è il processo che incide su un polipeptide, ossia su una singola catena di amminoacidi, facendogli perdere la conformazione nativa per opera di enzimi, calore o agenti tensioattivi.
Risulta interessante l’etimo di autore: dal latino auctor -oris, derivante da auctus, participio passato di augere, ossia “accrescere”, “far prosperare”. Autore è dunque colui che “fa crescere”, che sviluppa elementi dell’esistente. Il che non implica di default l’ossificazione, la cristallizzazione del movimento di “accrescimento”, bensì la capacità di fluire con esso innescando parimenti dei processi di ri-conformazione dei saperi umani e del mondo.
I situazionisti hanno cercato di srotolare, precipitare, realizzare l’arte di quasi un secolo: da Lautréamont al lettrismo di Isou, dal comunardo Courbet ai surrealisti, dal Dada al costruttivismo; ma alla fine hanno avuto paura delle contraddizioni che si scatenavano dentro la loro opera, dentro il loro stesso flusso autoriale collettivo, e quindi hanno preferito scrollarsi di dosso la questione dell’arte espellendo tutti gli elementi artistici dal loro gruppo. Non realizzando l’arte al di fuori del mercato, hanno preferito non sporcarsi le mani con i processi di valorizzazione dell’opera. Intenzione lodevole, ma che ha solo nascosto la poesia ritenuta insufficiente o le macchie di pittura sotto un tappeto di buone intenzioni.
Uno stralcio dell’intervento di Attila Kotányi alla quinta Conferenza dell’I.S. (Goteborg, agosto 1961), riassume efficacemente il dibattito e le preoccupazioni in seno al gruppo: «Fin dall’origine, si è posto il problema dell’etichetta per le opere artistiche dei membri dell’I.S. Sapevamo che nessuna di queste era una produzione situazionista, ma come chiamarle? Io vi propongo una regola semplicissima: chiamarle anti-situazioniste. Noi siamo contro le condizioni dominanti di inautenticità artistica. Non voglio dire che qualcuno debba smettere di dipingere, scrivere, ecc. Non voglio dire che questo non abbia valore. Non voglio dire che potremmo continuare ad esistere senza far questo. Ma, nel contempo, noi sappiamo che tutto questo sarà invaso dalla società per essere usato contro di noi.» (Internationale Situationniste, n. 7, aprile 1962, p. 27).
Pinot Gallizio, ad un certo punto, nel suo Manifesto della pittura industriale, parla di “moneta di choc”, con riferimento al tempo e ai cambiamenti che bisogna provocare. Sembra cioè auspicare l’introduzione (anzi, l’irruzione) di un nuovo, beffardo equivalente generale, il che implicherebbe un radicale cambiamento di stato, una sorta di “sublimazione”, in cui lo scambio – inteso come attività umana generale che muove il prodotto di attività particolari autonomizzandosi in valore – verrebbe soppiantato dallo choc (!).
Prendiamolo sul serio. Cerchiamo di costruire un’ipotesi, uno srotolamento o un riavvolgimento del senso che abbia una qualche rispondenza rispetto alla nostra volontà d’incidere sul mondo. Usciamo però dal vicolo cieco della negazione per partito preso e dai loop tardo-hegeliani incentrati sulla negazione della negazione.
Ora, cos’è lo choc se non un picco o una scarica di potenziale che vivifica e attraversa gli elementi del mondo veicolando energie nell’immediato?
E non si creda che questo “colpo”, questa “scarica”, implichi necessariamente grandi potenze e immani sprechi. Anzi, il suo significato autentico può essere colto soltanto dal singolo che se ne fa artefice – in continuità con altre forme-di-vita – creando picchi di consapevolezza, tempeste giocose in un bicchier d’acqua, continue variazioni di velocità nello svolgimento stesso del senso.
Il senso è l’unicità che emerge dalla relazione che abbiamo con i corpi e con gli elementi del cosmo. Il senso è l’unicità della relazione.
[Max Stirner spiegato e aggiornato in quattro righe: io sono unico, tu sei unico, per cui anche il noi reale o potenziale che andiamo a formare è unico, anche la relazione che abbiamo io e te ha un carattere di unicità, né può essere altrimenti, a meno che la nostra concezione dell’unicità non diventi un’“idea fissa”, ossia un freno mentale, ideologico, o addirittura psicotico, all’incessante e beato srotolamento del nostro divenire singolare.]
Possiamo pensare allo scioglimento di legami incancrenitisi, al desiderio di contrastare le tante piccole inerzie dell’uomo “civilizzato”, alla gioia di sentirsi svincolati, almeno a tratti, dalla necessità di lavorare dentro e fuori del pensiero. Ma questo è solo il primo passo, è solo l’avvio. Lo scioglimento deve preparare un nuovo picco, un nuovo coagulo, e anche la possibilità di uno sganciamento dall’appena costituitosi. Bisogna quindi impratichirsi sia nel trasportar scintille, sia nel governare il fuoco che appiccheremmo alle scorie dell’umano.
Il nuovo è restare sulla soglia. Far passare gli altri, traghettare i concetti. Srotolare il passato del futuro nella presenza di un noi, qui, eternamente. Non attendersi alcun ritorno. Andare senza direzioni. Arrivare senza ingiungere.
In tutto questo si rivela certamente una pretesa singolare, ossia: creare un cerchio magico e, allo stesso tempo, popolarne la circonferenza.
Il nuovo è un movimento che non mobilita, dove l’atto poetico prevarica sull’atto economico e ne blocca la circolazione. È un movimento che racchiude in sé ogni gratuità possibile, ogni consumo immediato dell’attività umana particolare: campo intensivo di tutti i possibili a portata di mano e dove l’obiettivo è distruggere le separazioni tra gli elementi del mondo in modo da difendere e sviluppare l’unicità di ogni forma di vita.
Appunti di novembre-dicembre 2013. (1 – Continua).