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cover-PunkAnarchiaRumore-CarmineMangonePubblico qui di seguito alcuni estratti dal mio: Punk Anarchia Rumore, Crac edizioni, Falconara Marittima [AN], giugno 2016, pp. 118, illustrato, euro 13.
Ne seguiranno altri nelle prossime settimane su Joy DivisionGG Allin, Crass, punk italiano, ecc.

Il presente collage di frammenti testuali prova a rendere il “rumore di fondo” che agita il libro, ossia i cardini essenziali del mio essere punk da quasi trent’anni. Spero di rendere l’idea, l’attitudine.

Il libro può essere richiesto ed acquistato in ogni libreria, oppure sul web: <sito dell’editore>   <Amazon>   <IBS>

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Nota di Mig su Cikuta Magazine (07/12/2019)

Resoconto dei Kalashnikov Collective sul loro  < b l o g > (13/07/2017)

Recensione di Loris Gualdi su < Music on Tnt > (18/09/2016)

Recensione di Marco Pandin su < A-Rivista Anarchica > (n. 410, ottobre 2016)

Recensione di Alessandro Bottero su < Classic Rock Italia > (n. 47, ottobre 2016)

Nota di Vittore Baroni su < Facebook > (30 ottobre 2016)

[Foto, dall’alto in basso: 1) Darby Crash, cantante dei Germs; 2) tavola tratta dal numero di dicembre 1976 della fanzine Side Burns; 3) la copertina del n. 6 del magazine Punk; 4) Discharge.]

Darby Crash, cantante dei Germs 1

«Il borghese è l’amico dell’ordine, nel senso che ha paura del rumore, dell’agitazione, delle manifestazioni, degli omnibus ribaltati, del pavé divelto, del brusio dell’illuminazione stradale.», Pierre-Joseph Proudhon.

L’etimo del vocabolo italiano rumore deriva da una radice indoeuropea di natura probabilmente onomatopeica: RU-, da cui anche “ruggire”, “ruttare”.
La radice in questione reca in sé una cesura, una soluzione di continuità. Indica sempre una crepa nell’equilibrio (presunto) della natura: deformazione intensiva di un ritornello, di un motivo, oppure urlo, esplosione che rompe la stasi del giorno.
Interessante anche l’etimologia del termine inglese noise, il quale deriva dall’antico francese noise (si scrive allo stesso modo, ma si pronuncia ‹nwaz›). I transalpini lo usano ancora oggi nella locuzione chercher noise, ossia “attaccar briga”. La cosa più interessante è però un’altra: il lemma francese (così come il provenzale medievale nauza) deriva dal latino nausea, con tutto un ovvio retroterra semantico fatto di disgusto, fastidio, malessere. Meno accreditata è invece l’ipotesi che lo stesso lemma discenda dal latino noxia, vale a dire “danno”, “misfatto”.

(…)

Le sette note musicali, i sette giorni della creazione, i sette peccati capitali.
Gli dèi espropriano il ritmo dei viventi e lo trasformano in composizioni cerimoniali, in litanie funzionali. Il sacerdote – il druido, il bardo – assume il controllo delle esecuzioni.
Nel ritmo, entra la misura, la “matematica”, e la tensione tra immediatezza e moderazione della gioia viene regolamentata dall’estetica, dalla politica del bello. Laddove c’era un andamento legato ai ritmi naturali – una libertà di cadenza, una libertà di cadere senza peccato –, lì nasce e s’impone la musica.

La religione introduce la musica nella Storia e asserve il ritmo dei viventi. Con la nascita della civiltà, lo stupore per la vita diventa un mistero da risolvere in Dio. La musica acquisisce così fin da subito delle finalità “misteriche”: prende in carico l’enigma della vita e del mondo organizzando il mistero dei suoni; li asserve quindi alla manifestazione liturgica del sacro e rivela ogni volta l’impossibile scioglimento del mistero – impossibilità di soluzione che subordina gli uomini a chi gestisce socialmente la profittabilità del mistero stesso.

Il musico, il cantore, l’aedo, è sempre un servo o un antagonista degli dèi. Non si sfugge a tale destino. Nell’ambito della musica, c’è sempre una dialettica (un conflitto) tra la passione di chi suona e la tendenziale o conclamata astrattezza delle teorie musicali.
Ogni volta che s’imbraccia una lira, si scende agli inferi (non solo metaforicamente) per riportare sulla terra un pezzo della propria carne, del proprio desiderio. Chi non ha consapevolezza di questa battaglia contro se stessi (e contro gli dèi) è un coglione o uno schiavo delle dinamiche sociali di valorizzazione.
Guardarsi indietro e perdere Euridice non è nichilismo, bensì desiderio irriducibile e ingenuamente refrattario ad ogni possibile morte.
Orfeo è un Sid Vicious senza lo spettacolo dell’anarchia, un Darby Crash o un Luca “Abort” Bortolusso senza l’overdose di eroina.

(…)

Il presente libro non ha alcuna necessità. In altre parole, non è stato scritto con un fine preciso, come ad esempio avallare una teoria, una storiografia, o magari per compiacere chi lo legge andando a soddisfare una sua eventuale domanda di rassicurazioni e conferme.
Il libro che hai tra le mani, caro lettore, intende creare, in maniera rozza e forse ingenua, un piano di concatenamenti teorici ed affettivi dentro l’impossibilità stessa di dire per sempre il rumore. Proprio per questo, presenta meno un insieme strutturato di riflessioni e più un “rumoreggiare” di sensazioni, illazioni. Vuole restare aperto, ottuso, beffardo. Non ha lezioni da impartire e possiede un’eventuale verità solo nel movimento che ne supererebbe la lettura producendo criticamente una nuova amicizia tra uomo e rumore.

(…)

Side BurnsSul numero di dicembre 1976 della fanzine Side Burns (poi ribattezzata Strangled), comparve un prospetto con gli schemi grafici di tre accordi per chitarra accompagnati dalla seguente didascalia: «Playin’ in the band… First and last in a series… / This is a chord – A / This in another – E / This is a third – G / Now form a band [Per suonare in un gruppo… In sequenza dal primo all’ultimo… / Questo è un accordo – La / Questo ne è un altro – Mi / Eccone un terzo – Sol / Ora forma una band]».
Il diagramma in questione può essere considerato l’archetipo visuale del Do It Yourself (DIY), ossia di una delle maggiori rotture apportate dal punk rispetto al rock iper-tecnico degli anni Settanta. Della serie: ti piace il rock’n’roll? Vuoi suonare? Allora imbraccia una chitarra, impara tre-accordi-tre e metti in piedi un gruppo! Fregatene dello stile, della pulizia formale, delle registrazioni impeccabili! Suona a modo tuo, divèrtiti col rumore, urla la tua rabbia in un microfono! Non devi essere per forza come Jimmy Page per suonare una cazzo di chitarra! Anzi, vaffanculo Jimmy Page!
Il “fai da te” – che dovrebbe sempre implicare, a mio avviso, anche un “fallo per te stesso” – introduce l’anarchia all’interno del sistema culturale. Anzi, oserei dire che si tratta addirittura di uno scarto in avanti rispetto alle posizioni delle avanguardie artistiche del Novecento. Dadaisti e surrealisti non escono infatti dal cerchio magico dell’intellettualismo e dei ruoli culturali. La loro rottura con l’Accademia e con le forme borghesi mette in discussione solo teoricamente gli elementi fondamentali della cultura. D’altronde, non mi pare che ci siano stati proletari o malavitosi o analfabeti tra i compagni di strada di Tristan Tzara o André Breton; gli scrittori e gli artisti delle avanguardie storiche eran tutti figli di borghesi o piccolo borghesi, e ciò ha inciso non poco sulla loro incapacità ad aprirsi realmente all’ignoto. La paura d’infangare il proprio percorso “iniziatico” verso il sapere (foss’anche rivoluzionario) e la malriposta speranza di detenere una qualche verità, finiscono sempre per creare ostacoli alla reale e ingovernabile diffusione delle idee. (…)

punk ‹pPunk magazine, n. 6 - coverḁṅk› s. ingl. (pl. punks ‹pḁṅks›), usato in ital. al masch. e al femm. (e pronunciato comunem. ‹pank›).
Voce gergale di origine incerta, la parola “punk” è sempre stata utilizzata in senso dispregiativo, indicando, di volta in volta: una prostituta; il giovane partner sessuale di un uomo più vecchio (specialmente in carcere); un pivello; oppure, in generale, qualcosa di marcio, di corrotto.

Il termine “punk” fu reso popolare negli States dalla fanzine omonima fondata nel 1975 da John Homlstrom, Legs McNeil e Ged Dunn. Il nome della rivista, scelto da McNeil, derivava da un modo di dire utilizzato spesso in alcuni telefilm polizieschi dell’epoca, come Kojak o Beretta, per etichettare in modo infamante i criminali (“You, lousy punk!”). In realtà, era già stato usato dai redattori della rivista Creem (in particolare da Lester Bangs, collaboratore ed editore della pubblicazione stessa) per indicare gruppi come Stooges e MC5 o il garage rock degli anni Sessanta. (…)

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Il punk non è un mero genere musicale; anzi, sostanzialmente, ha ben poco a che fare con la musica. È semmai un’attitudine rumorosa, una concretizzazione scalmanata delle corporeità che si negano all’astrazione che governa il mondo (o che almeno tentano di annientare l’alienazione sociale, negandola o esasperandola fino all’estremo in determinate situazioni costruite); punk come rumore che non vuole cedere alla merce, come amalgama rissoso di tutti i rumori che si chiamano fuori, pur richiamando costantemente il dentro dell’alienazione per dileggiarlo, per sputargli addosso.

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Un groviglio di corpi che ondeggia festoso. Sudore, caldo. La sala è strapiena di gente. Ho lasciato alcune mie cose (occhiali, portafoglio) ad un’amica rimasta sul fondo. Arrivo faticosamente sotto il palco. Il pogo è gioioso, straripante. E ti rendi conto che c’è sempre stato qualcosa di spensierato nel vivere il rumore. Voglio dire, in senso letterale: ritrovarsi senza più pensiero, sradicando da se stessi per alcuni lunghi momenti ogni superflua congettura sull’esistente, sugli altri. Eppure, ancora e sempre, con ogni pensiero possibile. La libertà, forse. Questa “cosa” indefinibile, ingovernabile. Apertura assoluta verso tutto il possibile di un desiderio comune. Vivendo l’unicità del momento, del movimento; la consapevolezza paradossale che ne hai attraverso l’urto con una massa indistinta di corpi. Attimi in cui senti il divertimento degli altri a fior di pelle e ne gioisci. Gli altri diventano allora un amico molteplice, collettivo, benché anonimo. Anzi, no. Il loro sorriso diventa il tuo. Il tuo sudore si mischia al loro. La polvere si alza sotto gli stessi salti, la stessa esultanza. Anonimo è solo il mondo che vuole zittire la tua gioia.

Discharge