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Di seguito, un lungo passo dal mio: Punk Anarchia Rumore, Crac edizioni, Falconara Marittima [AN], giugno 2016, pp. 118, illustrato, euro 13.

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Kina - La gioia del rischio (cover, demotape 1990)

Se la rivoluzione non ci salva dalla morte, la morte non uccide né il rumore, né le parole, forse perché il rumore e le parole già contengono una particola di morte. «In all our decadence people die», urla Eve Libertine, cantante dei Crass, in Shaved women (B-side del 7″ Reality Asylum). Ed è vero: in tutta la nostra decadenza la gente muore, e noi ci crogioliamo in stronzate inessenziali, come inessenziali potranno essere anche questo libro e le critiche ad esso, se non saremo in grado di uscire dalla valorizzazione autoreferenziale delle nostre mancanze. Una famosa canzone dei Kina (scritta da KinaUmberto Rivolin dei The Sphere) dice, ad un certo punto, che «questi anni stan correndo via come macchine impazzite». In effetti, li senti arrivare quasi di corsa e cerchi di non subirli, cerchi di trattenerne qualcosa, poi ti rendi conto che già non ci sono più, e t’interroghi sulla realtà, su ciò che è stato, su ciò che avrebbe potuto essere. Il punto, è che ormai abbiamo trascorso anche troppo tempo a guardarci dentro. Sarebbe forse il caso di tornare al di qua delle disillusioni, ostinatamente, come bambini cocciuti, giocosi, inventandoci nuove trame per abbattere le tante inezie che ci separano dai nostri presunti simili. Mi è sempre piaciuta molto l’attitudine dei Kina; mi è sempre parsa retta, onesta, senza bisogno di barocchismi politici o sonori. La loro grande libertà mentale è evidente anche solo considerando i gruppi che hanno inciso per la loro etichetta, la Blu Bus. Basta un nome su tutti: il collettivo torinese Franti (che poi ha cogestito la label insieme agli aostani). Franti è il cattivo del libro Cuore di De Amicis, colui che ride in faccia al maestro o quando muore il Re d’Italia, lo scapestrato che non teme nulla e che alla fine viene cacciato da scuola come un cane rognoso. La singolarità del gruppo omonimo è stata quella di adottare un approccio punk (DIY e nessun compromesso col carrozzone spettacolare del rock) avendo solo uno o due veri pezzi punk in repertorio: Franti - dettaglio della copertina di Luna nera (Lp, 1985)«Abbiamo creato questo gruppo nel 1976, come un progetto aperto di musicisti che volevano suonare insieme in differenti formazioni e diversi tipi di musica, cercando di autogestire noi stessi i concerti, gli strumenti, la riproduzione sonora, contro un modo di comunicare professionistico, tenuto in mano dai ricchi e dai businessmen.» (dallo split Franti/ContrAzione del 1984). Il 1976 è lo stesso anno in cui muove i primi passi un collettivo ben più famoso, quello dei Crass. Evidentemente, verso la fine degli anni Settanta, molti spiriti liberi dell’Occidente vivono un’esigenza comune di autonomia e sperimentazione, nonché una rabbia nuova, una volontà di sganciamento dai cliché della controcultura pop e dalla politica contestataria dei precedenti 10-15 anni. Due album dei Franti, Luna nera (1985) e Il giardino delle quindici pietre (1986), riescono a sintetizzare tutte le emozioni di un’epoca, tutti i tic di un’Italia antagonista che non vuole morire e che invece viene inghiottita miseramente dai tanti teatrini della politica e dello spettacolo. La rabbia finisce per erigere altri steccati, mentre la radicalità si trasforma inopinatamente in un’immane Frantie indiscriminata potatura. La droga, poi, fa il resto e sgambetta un’intera generazione, che forse non ha mai corso abbastanza in fretta per evitare di essere atterrata dalle sue stesse illusioni. L’eroina uccide ad esempio Luca Bortolusso, cantante dei Nerorgasmo, band torinese con all’attivo uno dei dischi più belli dell’Italian hardcore. I loro testi sono rasoiate nichiliste, cupe sentenze sul mondo, sulla città, su se stessi: «Cerco un varco tra i miei pensieri chiusi / Ma mai più, di sogni ormai non ce n’è più / Ma mai più, di voglia non ce n’è più / Unica speranza è coltivare la costanza / Ma mai più, di sogni ormai non ce n’è più / Ma mai più, son briciole di gioventù / Ultima energia, la forza per buttarsi via» (Freccia, da: Nerorgasmo LP, 1993). Ovviamente, il nichilismo può e dev’essere criticato, se vogliamo fare spazio ad un rinnovato progetto insurrezionale “positivo”, comunizzatore, non impositivo; tuttavia non ci si deve mai perdere in biechi moralismi, bisogna infatti avere sempre rispetto per i perdenti che hanno assunto su di sé la propria sconfitta (e quella di un intero mondo) rifiutando parimenti il cattivo gusto di una sopravvivenza comprata ai banchi del mercato. Il surrealista René Crevel, morto suicida nel 1936, sosteneva a tal proposito una verità banale, lancinante: «La vie che j’accepte est le plus terrible argument contre moi-même [La vita che accetto è il più terribile argomento contro me stesso]». Per alcuni, la forza e lo slancio per costruire degli scampoli di vita vera possono venire paradossalmente dal desiderio di morire, di “buttarsi via”. Purtroppo, quando si esaurisce la spinta data dal desiderio di annichilirsi, non resta altro che il morire e si finisce così per darsi la morte “biologica” per non accettare le tante, piccole morti “sociali” di ogni singolo giorno. Eppure il nichilismo rimane Nerorgasmo1chiaramente dentro il cerchio magico dell’esistente, della rinuncia; si rivela una trincea che impedisce persino il godimento decadente della noia o la sublimazione estetica dell’angoscia (che sono state le grandi molle dell’arte moderna). Ai “suicidati dalla società”, per usare la formula di Antonin Artaud, va tutto il mio rispetto, ma per me è sempre preferibile la tentazione di ricominciare, d’interrogarsi sulla gioia negata, sulla rabbia che deborda, e farne ogni volta un rovesciamento del mondo, delle mancanze, una ricerca incessante di senso contro la “servitù volontaria” dei civilizzati. La cosa non è così semplice, intendiamoci. Molto spesso, abbattere le separazioni porta a istituire nuove mediazioni, approssimandoci paradossalmente alla più profonda distanza tra noi e gli altri. D’altronde, essere accanto a qualcuno non significa essergli presente. Fidarsi dell’altro, anzi, sembra diventata l’impresa più ardua, e l’individualismo viene indossato quasi da tutti come una seconda pelle. Anche il punk è divenuto un mezzo per governare il desiderio e per esaudirlo banalmente vendendo scampoli di tempo (ben poco) libero. Siamo però davvero sicuri che il desiderio più acerrimo possa essere governato, indirizzato, impiegato?

Nerorgasmo1986

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