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ROMA, domenica 13 febbraio, h. 20

Zazie nel metrò, via Ettore Giovenale n. 16 [Pigneto]

Carmine Mangone

EROTISMO, TENEREZZA, INSURREZIONE

Lettura, conferenza, comizio

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Di seguito, riflessioni, immagini e spunti poetici a formare una sorta di “cassetta degli attrezzi” assemblata appositamente per l’incontro romano. Un’occasione per confrontarsi su temi essenziali e per tentare la costruzione di nuove trame, di nuove com-unicità.

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La pelle tesa come il
più ingenuo dei destini,
a carezzare,
abitare,
possedere in tendini e parole.
Non un solo uovo di paura
nel nido a picco sui nostri amori.

Se desideriamo ridurre le distanze tra noi e l’Altro, o costruire almeno un senso non conflittuale pur nella distanza, nella differenza tra noi e l’Altro – un senso che sappia essere accordo o comune disaccordo nella più ampia reciprocità possibile delle rispettive potenze –, dobbiamo anzitutto incontrarci all’interno dei nomi e delle definizioni che diamo alle cose, ai concetti, alle relazioni.
I nomi sono aperture o arroccamenti. La comunanza, ossia la riduzione della distanza, e la qualità di una tale riduzione, deriva anche dall’accettazione comune dei nomi, delle determinazioni. I linguaggi non sono mai neutri o neutrali, neanche quando sembrano restare sulla superficie delle cose. Lavorano sempre alla costruzione di un consenso.

La rabbia senza nome,
il fuoco senza nome e
la poesia senza nome si
parlano a gesti alle spalle dei padroni.
La parola che mi manca e
che io non manco.
La gentilezza della pietra che sta nel
cavo della mano,
pronta a infrangere il decoro dei sogni.

Erotismo, tenerezza, insurrezione: nomi che costituiscono un percorso, un concatenamento di esperienze, ma anche un esercizio di potatura del senso, una ricerca di chiarezza, di rigore, dove gli estremi (l’erotismo, l’insurrezione) sono altrettanti movimenti comuni delle singolarità, delle unicità viventi, mentre la tenerezza è la modalità affettuosa della relazione, il culmine senza fatica e senza padroni dell’affetto.

L’erotismo, storicamente, è il pensiero carnale in cui convergono il rigore ingovernabile del desiderio e la tenerezza possibile dei propositi.
Nasce nell’antica Grecia – Eros era originariamente una forza primigenia, onnipervasiva, che non risparmiava neanche gli dèi – e si afferma nella modernità come immaginario dell’amore, come produzione e riproduzione di idee, immagini e relazioni legate all’àmbito sessualizzato dell’amore.
È un -ismo eccentrico, indelimitabile, perché contiene in potenza tutti i corpi, tutte le affezioni materiali tra i viventi, tutti gli affetti che partono dalla carnalità e ad essa ritornano in un’incessante ricombinazione del desiderio. Si tratta dunque di un pensiero che sfugge ad ogni limite, anche a quello dei corpi e delle loro relazioni storiche, e che reca in sé sempre un rilancio, un annuncio di smodatezza.
Accogliere Eros significa farsi tramite di un desiderio – e incarnare, addensare, dissipare una potenza comune insieme all’Altro.
Così Eduardo Galeano: «La Chiesa dice: Il corpo è una colpa. / La scienza dice: Il corpo è una macchina. / La pubblicità dice: Il corpo è un affare. / Il corpo dice: Io sono una festa». Ciò nondimeno, la festa, ossia la messa in comune dei godimenti, più o meno ritualizzata, non può esaurire acriticamente la potenza di chi vi s’impegna, né può esaltare l’unicità del mio godimento a discapito di quello dell’Altro. L’erotismo è com-unicità, è compimento comune di tutti i desideri particolari che vi agiscono, oppure non è. Nel gioco carnale degli affetti, occorre mettere in discussione la necessità di una contropartita, di una ricompensa, di una rivalsa. Il gioco erotico, se si rivela una riduzione economica dell’Altro attraverso una proliferazione sessuale del valore di scambio, se promuove dunque una qualche contabilità orgastica o sentimentale, si trasforma rapidamente in una mera dinamica masturbatoria.
In altre parole, al di qua della demonizzazione operata in epoca cristiana (con la costruzione sociale della luxuria), l’erotismo è – o deve tornare ad essere – uno strumento essenziale del saper vivere. Non un “peccato”, non un semplice sfogo dei sensi, bensì una vera e compiuta adesione alla migliore materialità del mondo.

Io non celebro i tuoi vuoti,
né ho bisogno di colmarli.
L’assedio è finito molti anni fa.
Colpo su colpo
e carezza dopo carezza,
abbiamo dato una carne alla distanza e
potato i rami secchi della negazione.
Il nostro desiderio è qualcosa di determinato,
e la sua determinatezza (dovrei anche dire: la sua
determinazione) è un momento della
materia universale, benché incarnata e
resa unica in un modo infinitamente mortale.
Nel tuo corpo nudo,
l’ironia del divenire ci regala il trucco migliore per
valicare la differenza,
mentre i lupi del paradiso
azzannano Dio nell’indifferenza delle Pleiadi.

Io ti conosco non solo dando dei nomi alla conoscenza che ho di te, non solo creando un discorso amoroso per entrambi, ma anche e soprattutto accarezzandoti, aprendomi al tuo desiderio, facendomi penetrare dalle tue voglie, mettendo in comune le nostre visioni, i nostri sorrisi, i nostri tumulti.
Il saper vivere è riconoscere la tua presenza dentro le mie contraddizioni, è saper costruire un territorio comune in cui venirsi incontro (e non solo venirsi addosso) riconoscendo la labilità del momento affettuoso e dotandosi degli strumenti essenziali per rilanciare con gioia l’esperienza che si fa dell’Altro.

Nudi come fili d’erba,
custodiamo il rilancio,
nettiamo l’eterno.
La sconcezza è nella mano di chi non osa.

«(…) la singolarità, mentre è un individuo esclusivo di fronte a un altro individuo, in quest’altro individuo essa si continua e in questo Altro sente se stessa. Questo rapporto è processo che comincia con il bisogno, perché l’individuo in quanto Singolare non è conforme al genere immanente e, a un tempo, è l’autorelazione identica del genere in una unità; così l’individuo ha il sentimento di questa mancanza. Il genere, pertanto, è entro l’individuo come tensione contro | l’inadeguatezza della sua realtà singolare, è l’impulso a raggiungere il proprio autosentimento nell’Altro dello stesso genere, a integrarsi mediante l’unione con esso, a sillogizzare attraverso questa mediazione il genere con sé e a portarlo all’esistenza. Si ha così l’accoppiamento» (Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, § 369).

In un’epoca in cui la morte dell’avventura e della sovversione segna il culmine depressivo del genere Homo, la ricerca della gioia deve poter trainare le azioni e il pensiero dei viventi umano-femminili che non si lasciano annichilire dal governo dei valori sociali.
Senza gioia, sopravvive solo la palude delle speranze e si differisce continuamente la compiutezza possibile dei gesti, delle relazioni, delle esperienze.
La gioia deve costituire la molla di ogni dinamica insurrezionale, di ogni sovversione davvero toccante. L’efficacia dev’essere subordinata alla costruzione comune di una densità affettiva. Solo così si sottrae il senso della vita e della morte ai processi di valorizzazione sociali che sviliscono l’unicità e l’autonomia dei singoli all’interno dei loro stessi gruppi di riferimento.

Se un erotismo critico e condiviso rimane la chiave dei corpi autonomi, l’insurrezione è la dinamica singolare o di gruppo che ci permette di varcare la soglia del possibile.
Occorre però uscire dalle opzioni “erettili” del pensiero rivoluzionario degli ultimi due secoli e mollare definitivamente il nichilismo agente in coloro che tendono a rinchiudersi in maniera superomistica nella sola pars destruens. La distruzione non può esaurire o estenuare la trasformazione, anche perché il divenire non ammette freni, e chi si prova a frenare il divenire finisce invariabilmente per diventare autoritario subordinando a sé la trasformazione degli altri.

L’insurrezione è il movimento che fa emergere l’unicità del vivente dalla superficie del possibile: in su, in alto, verso i rami, i frutti, le nuvole, i rapaci, in un andamento che non dimentica le radici e che, al tempo stesso, non ammette alcuna ideologia radicale.
Io metto la testa fuori dalla merda per sentire l’odore del mondo, e se il mondo sapesse ancora di merda, cercherei di reinventarlo, di ricomporne alcuni frammenti in modo da sentirlo amico senza colonizzarlo, senza confinarlo mortalmente nel mio senso della vita.

Arrivo sempre in ritardo d’una certezza
quando provo a trattenere l’oggetto del mio desiderio;
tanto vale concepire una poesia con la fionda e
giustificare ogni vetro infranto dalle risate che
s’alleano col nostro impossibile.
Il corpo non è una cosa,
ma le diverse materie che convergono nella
relazione unica degli affetti.
Io ti tocco
e il mio Io muore dentro i nostri corpi acerrimi.
L’unicità è l’eterno che inciampa gioiosamente nella morte,
senza figliare rancore, senza fare storie,
senza spadroneggiare sulle contraddizioni.

L’insurrezione è un piano di compiutezza, mentre la rivoluzione è un orizzonte, uno scenario sociale. L’insurrezione dei singoli può preparare una rivoluzione, ma la rivoluzione non è necessariamente il compimento delle insurrezioni singolari (dalla Comune di Parigi in poi, la storia degli sconvolgimenti sociali e delle loro sconfitte appare chiara, inespiabile e assolutamente da sormontare; occorre abbandonare la dialettica, aderire ai corpi affettuosi, creare un’adiacenza delle amicizie restando al di qua del consenso politico).
Stirner versus Marx. Siamo rimasti lì. Anzi, siamo tornati al punto di partenza dopo aver puntellato inutilmente i nostri propositi attraverso i canali politici.
La polis, a questo punto, va messa in discussione drasticamente e, se possibile (anche quando appare impossibile), va abbandonata in favore di un dislocamento assoluto, smettendo di cercare semplicemente dei compagni e ponendosi in ascolto, in favore di un affetto rigoroso, decisivo, inattaccabile dal potere e dalla mercificazione dei rapporti. Ricordarsi, anche, che la messa in discussione non basta e che bisogna costruire unioni, branchi, mute di complici al di qua della frammentazione sociale. Smettere di essere post-qualcosa e aprirsi all’amicizia – all’amicizia intesa come riconoscenza affettuosa dell’Altro e non come semplice riconoscimento politico.

In tutto questo, la tenerezza è l’accettazione dei propri limiti umani, senza sensi di colpa e senza incolpare l’Altro, per consentirsi il pieno dispiegamento della propria unicità e della propria autonomia.
Tenerezza come affidamento dei propri limiti al gioco delle relazioni, come disponibilità verso l’abbraccio dell’Altro, nonché come critica affettuosa del Padre e della Madre (anche mitici, anche politici), che vanno abbandonati e perdonati nel divenire della nostra amicizia verso il mondo.
Parafrasando Emma Goldman: senza la tenerezza, non è la mia insurrezione, non è il mio erotismo. Abbiamo bisogno di nuovi miti, di nuove rilegature, ma senza più dèi, senza più padroni, finalmente all’altezza di ogni nostra più appassionante concezione poetica.

Le pietre scagliate contro il destino
non allevano montagne,
né ci assicurano sulla stabilità di una casa.
L’odio non guarisce l’odio,
non fa miracoli,
non riporta in vita le cose morte,
i corpi morti,
la poesia morta.
A meno che
la fionda dell’entusiasmo non lanci i suoi sorrisi
al di là dell’obbligo e ci renda accorti padroni della
gioia e dell’indicibile.

[ Laureana Cilento, 30 gennaio-8 febbraio 2022, con aggiunte del 10 febbraio. Grafica del flyer: Chiara Sestili. ]