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Antonin Artaud, Arthur Rimbaud, Benjamin Péret, Canti di Maldoror, Dada, détournement, Erbafoglio, fotografia, Guy Debord, infopolitica, Internazionale Situazionista, Isidore Ducasse, Lautréamont, Marcel Duchamp, negazione, nomadismo del desiderio, postpoesia, René Char, rivoluzione, surrealismo, Una stagione all'inferno, Viviana Leveghi
Il breve saggio che vi propongo qui nella sua interezza, è apparso sul n. 29 della rivista cagliaritana Erbafoglio (ottobre 2024).
Sono dell’avviso che sia un testo assai importante per gli sviluppi del mio pensiero, perché tratteggia un approccio molto più critico nei confronti di autori e movimenti (mi riferisco in particolare alle avanguardie del Novecento) da cui han preso origine il mio agire e la mia opera qualche decennio fa.
Riprenderò alcuni di questi spunti, cercando di renderli più incisivi e propositivi, in un grosso lavoro su René Char che vado preparando e che dovrebbe uscire entro il 2025.
Illustrazioni del presente post: Viviana Leveghi.

L’ascesa al potere della classe borghese, avvenuta con la Grande Rivoluzione del 1789, infrange definitivamente l’unità politico-teologica del mondo cristiano feudale e trasforma l’esistente in una incessante produzione di frammenti valorizzati e di valori frammentari.
La cultura borghese, in ogni àmbito determinato del sapere, è quell’insieme dei dispositivi sociali di gestione delle informazioni e dei processi cognitivi che mira a garantire un consenso sempre più allargato verso il binomio Stato-capitale.
Un tale governo d’insieme delle conoscenze segue due flussi di sviluppo strettamente interrelati, che possono sembrare contraddittori soltanto in apparenza. Da una parte, abbiamo una progressiva ingerenza statale sia nel campo dell’istruzione (sempre più laicizzata), sia nella costruzione di una legittimità tendenzialmente «universale» dei valori sociali (il lavoro, il «Progresso», ecc.). Dall’altra, l’individuo diventa il depositario privato di un sapere parcellizzato, esteriore, sovente specializzato, tale da permettergli la riproduzione minima giornaliera del proprio ruolo sociale, nonché della propria capacità personale di valorizzazione dell’esistente.
La cultura si pone l’obiettivo di tenere insieme i frammenti del quotidiano, laddove l’arte aspira invece a imbellettare il lavoro, lo sfruttamento, la violenza, costruendo cornici o rappresentazioni formali dentro le quali esaltare questo o quel dettaglio di una bellezza ormai anodina e socialmente determinata.
Verso la metà dell’Ottocento, con l’affiorare delle istanze rivoluzionarie del proletariato, s’insinua il negativo anche nel dominio estetico borghese. In letteratura e poesia gli sconvolgimenti si fanno radicali, profondi, e mettono in discussione, ai margini della cultura ufficiale, tutti gli assunti formali e teorici dell’esperienza creativa. Si cerca di ricomporre, almeno formalmente, e in un àmbito che resta sovente separato, le contraddizioni sociali sempre più laceranti. Abbiamo così un tentativo di superamento individuale e formale, sostanzialmente idealistico, di tutti i limiti sociali imposti all’espressione umana (si vedano i casi emblematici di Rimbaud e Ducasse/Lautréamont); tentativo al quale subentrerà, progressivamente, quello di una collocazione del proprio agire artistico e intellettuale su un piano sociale o in un àmbito collettivo dalla marcata caratterizzazione eversiva (dinamica che porterà, dopo alcuni decenni, alla nascita delle avanguardie novecentesche).
Arthur Rimbaud ha letteralmente spezzato in due la storia della poesia. Prima di lui c’era il poeta, il «vate» più o meno decaduto o decadente, con le sue parole in bella copia, i suoi mecenati, i suoi risibili privilegi di classe. Dopo Rimbaud, abbiamo invece l’agitatore poetico, il ricercatore nomade, il facitore di versi liberi che rilancia esperienze di vita e teorizza una pratica della purezza non meramente ideale o stilistica.
Une saison en enfer (1873) è, a tutt’oggi, la condanna di un mondo che ancora si trascina.
Se la poesia non ha cambiato in meglio il mondo, quest’ultimo ha fatto sì che prevalessero, in poesia, i formalismi indolori di uno spazio letterario in cui poter negoziare (anche impudicamente) i propri limiti.
Rimbaud è morto comunque per i suoi peccati, non per i nostri, e il suo fallimento esistenziale è diventato l’anestetico di tutti quegli scribacchini che, volendo preservare la propria miseria poetizzata e il proprio brandello «domestico» di poesia, non avrebbero mai potuto tollerare una trasformazione realmente poetica del mondo.
In tutto questo, mi piace credere che alcuni dei fucili venduti al ras Menelik II dal mercante Rimbaud siano stati usati successivamente dagli abissini contro le truppe coloniali italiane uscite sconfitte dalle battaglie di Adua o dell’Amba Alagi…

L’apparizione del conte di Lautréamont rimane un fatto sconcertante. Un giovincello di vent’anni riesce a scrivere quel pozzo abissale che s’intitola Les Chants de Maldoror! Il surrealismo nasce con lui (basta scorrere il quarto o il quinto canto); il finale aperto lo inventa probabilmente lui (si rilegga il sesto e ultimo canto); la radicalizzazione e la «soluzione finale» di tutti gli stilemi romantici si afferma definitivamente nel suo Premier chant.
Dopo Maldoror, insomma, così come dopo l’avvento di Sade, gli estremi sono agguantati e celebrati letterariamente, teoricamente. Le voragini dell’animo umano (le violenze dell’immaginario, le figure della violenza) non sono più un tabù e vengono censite, esplorate, riferite senza remora alcuna.
Tuttavia, il giovane Isidore-Lucien Ducasse, questo il suo vero nome, fa molto di più. In due opuscoli di poche decine di pagine, Poésies I & II (pubblicati a proprie spese nel 1870), Ducasse dileggia tutta la letteratura della sua epoca e, non pago, introduce e pratica un metodo «mostruoso»: quello del plagio, inteso qui come sviluppo necessario e progressivo di tutte quelle idee ormai inerti, banalizzate, consensuali. Ducasse prende invero degli autori notissimi in Francia, come Pascal o La Rochefoucauld, e ne manomette le massime, le espressioni, facendone sgorgare un senso inusitato: un senso che, da quel momento, si mette a delirare costantemente sui limiti del pensiero e sulle possibilità immani (ma anche pericolosamente autoreferenziali e autolegittimanti) di un aggiustamento schizofrenico dei saperi.
Nasce quindi con Ducasse la ricombinazione critica, ironica e senza limiti della langue, ricombinazione che diventerà uno dei fondamenti epistemologici e pubblicitari della creatività capitalista, nonché degli stessi processi di negazione che tenteranno di sovvertire idealisticamente la cultura borghese (si veda, ad esempio, il détournement propugnato dai situazionisti, che è metodo di conclamata ascendenza ducassiana).
Intanto, la riproducibilità tecnica introdotta dal processo fotografico (e dal successivo avvento del cinema), rispetto alla stampa tipografica o alle convenzionali arti figurative, facilita la produzione delle immagini e ne incrementa enormemente la diffusione su scala sociale. Le cose e i corpi diventano così delle idee fissate visivamente dalla tecnica, ma anche (e soprattutto) le idee fisse di un immaginario infinitamente neutralizzato nel perimetro di una cornice, di uno schermo: «negativi» da riprodurre e valorizzare indefinitamente, in un territorio neutro, fatto di luci e ombre che lo rendono astratto, fruibile, spendibile senza limiti.
L’immagine fotografica di cose e corpi – la loro riproduzione di massa – li rende quindi dei simulacri, li strappa alla natura indicibile della loro possibile unicità e li dà in pasto a una reiterazione meccanica, intangibile.
Il proliferare mediatico delle immagini ridimensiona drasticamente i processi di figurazione della mente, al cui interno, poco alla volta, la fantasia diventa un figurante, un incessante fotomontaggio dell’immaginario.
È come se la regina Pasifae, dopo che Dedalo le ha costruito un simulacro di vacca per accoppiarsi col toro divino inviato da Poseidone, avesse poi deciso di restarsene accartocciata in fondo all’artificio preferendo limitarsi a desiderare il proprio desiderio anziché vederselo esaudire. Nella sua mente (e nella nostra), il labirinto sarà ormai una costruzione immateriale, fatta unicamente d’immagini, di frammenti icastici, e a prova di qualsiasi filo d’Arianna.
S’invecchia sempre male, negli àmbiti separati dell’arte e della letteratura, se non si possiede la capacità di mettere in discussione ogni separazione.
Il movimento dadaista, fondato a Zurigo nel 1916 (in piena guerra mondiale), nasce da un profondo disgusto verso le espressioni sbandierate da una società che sbatte in trincea il possibile e il bello dell’uomo.
Alcuni tra i figli della stessa borghesia cominciano a sputare nel piatto dove mangiano perché si rendono conto che il cibo è avvelenato. Il gesto liberatorio, la provocazione per partito perso, diventa più importante dell’opera letteraria o artistica. La poesia diventa un’attitudine, una modalità d’azione contro i «valori eterni dello Spirito», ossia quegli stessi valori che avevano prodotto le armi ideologiche per legittimare il mattatoio della guerra.
Il ghigno di Rimbaud viene a generalizzarsi tra i giovani artisti dell’epoca e si abbatte sul buonsenso omicida della borghesia facendo sì che la pratica del negativo si affermi come negazione di ogni ipocrisia della ragion pratica. Lo stile si fa insolenza, scandalo, incessante imboscata ai danni della morale e delle idee dominanti.
Tuttavia, il movimento Dada s’impantana ben presto in una ricerca spettacolare e spasmodica dell’effetto, a tutto detrimento di un reale rovesciamento dei rapporti materiali.
Con la sola eccezione dei dadaisti tedeschi, molti dei quali s’impegneranno attivamente nelle varie correnti rivoluzionarie del proletariato, l’esistenza del gruppo zurighese (e poi di quello parigino) verrà messa in mora dall’inconcludenza stessa di un negativo divenuto mero tic stilistico e coazione dilettantesca alla pars destruens.
Nel 1964, sarà Marcel Duchamp, uno dei numi tutelari dell’arte modernista, a decretare il congelamento artistico della negazione e ad avallare economicamente una produzione in serie della provocazione, allorché deciderà, in collaborazione col gallerista milanese Arturo Schwarz, di rilasciare dodici repliche dei suoi più importanti ready-made (tra i quali: l’orinatoio rovesciato e la ruota di bicicletta).

Proponendosi di superare il velleitarismo dei dadaisti, il gruppo surrealista storico (1924-1969) ha cercato di organizzare e rendere efficace la critica contro l’esistente partendo da un sincretismo teorico che coniugava istanze di scientificità (Freud, Marx) con alcune delle più avanzate elaborazioni in fatto di scrittura e arti visive (Sade, Lautréamont, Rimbaud, Apollinaire, Duchamp, ecc.).
La ricerca di un’efficacia pratica delle proprie attività conduce però il surrealismo a istituzionalizzare il negativo accettando l’opzione di una militanza partitica pseudo-rivoluzionaria (i rapporti col partito comunista saranno però fallimentari) e finendo in tal modo per far esplodere le contraddizioni esistenti in seno al movimento.
La «realtà rugosa da stringere» di cui parlava Rimbaud, rigetta i tentativi di calare il sogno e gli automatismi psichici nella quotidianità dell’uomo alienato e fa della surrealtà di Breton & C. una nuova dimensione estetica separata. I mezzi si trasformano in fini e l’opera artistica riprende il sopravvento sull’azione. Solo in pochi si ostineranno a voler trovare una soluzione insurrezionale (collettiva o individuale) ai conflitti della modernità: René Char e il suo impegno nel maquis; Benjamin Péret imbracciando un fucile durante la rivoluzione spagnola del ‘36; Antonin Artaud e il suo spingersi agli estremi limiti della mente e dello spirito accogliendo drammaticamente tutta la presunta follia del mondo.
Il situazionista Guy Debord, con ogni evidenza, ha scritto la parola finale sulle summenzionate avanguardie del Novecento: «Il dadaismo e il surrealismo sono le due correnti che segnarono la fine dell’arte moderna. […] Il dadaismo ha voluto sopprimere l’arte senza realizzarla; e il surrealismo ha voluto realizzare l’arte senza sopprimerla» (La société du spectacle, tesi 191).
In realtà, l’Internazionale Situazionista (1957-1972) si dibatté fin dall’inizio in contraddizioni ancor più esasperate. Il ruolo sociale dell’artista o dell’intellettuale venne duramente criticato, avversato, tanto da arrivare ad espellere dal movimento tutti coloro che scendessero a patti, anche solo in parte, col mondo mercantile della cultura.
Il sogno di far diventare poetica la vita, che era già stato dei surrealisti, s’infrange tuttavia contro la sconfitta delle istanze rivoluzionarie. Dopo il Maggio ‘68, comincia infatti una massiccia ristrutturazione sociale e si ha un inesorabile riflusso verso un’accettazione generalizzata degli assetti capitalisti.
Parafrasando Debord, si potrebbe dire che i situazionisti abbiano voluto realizzare la teoria radicale senza sopprimerla, non rendendosi conto che le dinamiche del capitale stavano derealizzando la teoria radicale per poterla sopprimere proficuamente negli àmbiti separati della cultura, del consumo e della pubblicità.
La dialettica ha i suoi lati ironici, ma l’ironia non aiuta granché i processi di conoscenza, se i dialettici si prendono troppo sul serio.
La coazione alla negazione, d’altronde, non prevede sintesi, non consente un’unificazione tattica degli elementi in gioco; si vuole infatti come flusso incessante, che valorizza e svalorizza senza posa il suo stesso movimento, limitando così ogni analisi del mondo a una critica che critica se stessa e i propri critici.
Il gruppo situazionista, dopo aver esordito con un’originale combinatoria culturale e politica degli elementi rivoluzionari preesistenti, non riesce a creare una nuova unità reale del proprio pensiero, non riesce cioè a valutare in tempi rapidi la nuova connessione tra situazione del mondo e avvenire del mondo venutasi a creare nella Francia post ’68, finendo quindi per smarrirsi nella difesa a oltranza dei dettagli ideologici in cui sarà frammentata culturalmente la sua teoria.
Nei primi anni di attività, l’I.S. aveva cercato di conciliare le due tendenze interne: quella prettamente teorica e rivoluzionaria, che finirà per ruotare intorno alle figure di Debord e di Vaneigem, e quella più legata a problematiche estetiche. Ciononostante, s’innescherà ben presto una dinamica di rigorosa politicizzazione interna, la quale porterà, nei primi anni Sessanta, alla graduale espulsione di tutti gli elementi artistici.
Un passo dell’intervento di Attila Kotányi alla quinta Conferenza dell’I.S. (Göteborg, agosto 1961), riassume efficacemente il dibattito e le preoccupazioni in seno al gruppo: «Noi siamo contro le condizioni dominanti di inautenticità artistica. Non voglio dire che qualcuno debba smettere di dipingere, scrivere, ecc. Non voglio dire che questo non abbia valore. Non voglio dire che potremmo continuare a esistere senza far questo. Ma, al tempo stesso, noi sappiamo che tutto questo sarà invaso dalla società per essere usato contro di noi».
Poesia e arte procedono ormai stancamente. Sono rifritture, ricombinatorie incessanti del già sentito, esaltazioni patetiche del banalizzato. In estrema sintesi, e nel migliore dei casi, si rivelano dei tentativi di valorizzare l’ovvio spacciandolo per bello.
Intanto, i creativi contemporanei temono l’impatto dell’intelligenza artificiale generativa, ma non si avvedono dell’artificialità intrinseca a certi meccanismi mentali, estetici. L’intelligenza nata dall’avvento snaturalizzante dell’immaginario umano e dalla fondazione storica del pensiero simbolico, ha sempre avuto un quid di artificiale, di artefatto, di mediato. Le parole e le immagini concatenate dalla mente simbolica, ossia da una mente che crea ed esalta delle corrispondenze figurative e concettuali sempre più sganciate dall’immediatezza dei rapporti naturali, possiedono sì un’idea dell’esistente, ma senza che una tale idea riesca mai a concretizzarsi in una pratica attualmente e totalmente immediata.
Finché il mondo non smetterà di apparirci come un insieme di elementi che ci separa dalla compiutezza della vita, la poesia e l’arte continueranno ad avervi la loro parte, la loro riserva. E a nulla conta che sia il poeta o l’artista stesso a criticare o a condannare una tale riserva, perché quest’ultima, a ben vedere, è il fondamento reale di ogni espressione estetica. Anzi, a dirla tutta, il mettersi in opera dell’ingegno umano è sempre la risultante di un tentativo di ridimensionamento di ogni riserva, di ogni separazione, anche quando l’opera stessa si dovesse limitare a una forma di patetica reticenza al cospetto dell’impossibile.
Poco male. Le macchine toglieranno l’umano dall’impaccio di resistere all’oblio. Il bisogno di assoluto e il lavoro della Storia verranno licenziati dalle tecnologie di virtualizzazione della vita e dalla graduale trasformazione della biopolitica in infopolitica. La carne segnerà il passo. La poesia eventuale dei corpi si tramuterà in una postpoesia elaborata da algoritmi sempre più customizzati. L’idea dell’uomo diverrà una pura informazione computazionale all’interno di un corpo sociale cyborg. L’Io sarà preistoria. Il noi si farà impensabile. Avremo allora l’avvento di una pura latenza, di una successione infinita di differenze che non nutrirà più alcun bisogno d’articolarsi in un senso comune.
In tutto questo, potrà ancora sussistere un Fuori? Avremo ancora modo d’inventarci un’evasione dai nostri limiti mortali che non sia una mera divagazione indistinta o inconsulta?
Nel divenire di tutte le cose, la disperazione non ha mai avuto un senso. Il destino è bello, l’universo è stupefacente e le lacrime non giungeranno mai a rigare mortalmente i nostri volti se faremo in modo che possano ancora irrigare i prossimi sorrisi della materia animata.
Si vive, si muore. Poco importa. Mentre le macchine scriveranno al posto dell’umanità residuale, noi ci metteremo a far poesia coi rumori della vita acerrima e, in morte di tutte le parole divenute ormai ridondanti, torneremo finalmente a toccarci alla periferia dell’impossibile.
Laureana Cilento, 18-27 luglio 2024
