Il testo che segue è la quarta versione di un insieme di frammenti scritti nel lontano 1993. Il corpus, in origine, fu assemblato per un articolo pubblicato sul n. 72 della rivista “Anarchismo” (maggio 1993). Fece poi da introduzione alla mia prima raccolta di versi: Anche ieri ho dimenticato di morire (tre edizioni: 1993, 1998 [nel volume Incastrato tra fuoco e lacrime] e 2010).
Ora, alcuni mesi fa, Luigi Balice, l’intrepido curatore di Infilare una mano tra le gambe del destino, mi ha chiesto esplicitamente di riprendere quel testo, rivedendolo ed integrandolo, per farne la prefazione del libro.
Ho accettato molto volentieri l’invito di Luigi, dato che il testo in questione è da considerarsi a tutti gli effetti una sorta di manifesto della mia poetica e del mio agire sovversivo.
Ovviamente, la presente versione è caratterizzata da molte e significative differenze rispetto alle prime tre, e non poteva essere altrimenti, visto che col tempo ho affinato i miei concetti e radicalizzato le mie posizioni. Ma tranquilli: non ho stravolto il testo originario.
Buona lettura.

 

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Il mondo del lavoro sembra fatto su misura per quegli idioti che si sottomettono alla necessità di svendere la propria vita pur di non reagire alla piccola morte di ogni loro giorno.

Se dico che il capitalismo ha reificato anche la puzza della merda, non posso che ridere di tutto, ma il mio è il riso amaro di chi non cerca nient’altro nella vita che il segno di una lacerazione definitiva. Non si venga quindi a cercare in me quel che si vorrebbe: ho fatto sempre e solo caso a ciò che mi è sembrata la vita. Il resto – tutto il resto – non è che un banale cortocircuito di parole.

Il mondo del lavoro si può considerare come l’insieme delle attività creative ormai ridotte al rango di semplici matrici nel luogo di produzione del valore. Il creare, il fare qualcosa di “eccessivo” (che cioè eccede il normale carattere delle cose) si fa ricondurre quasi sempre ai concetti di utilità e produttività. Il fare qualcosa diventa dunque il fare una “cosa” per forza di cose. Di conseguenza, nell’umanesimo fondato sul valore di scambio, tutto ciò che è produttivo, ossia tutto ciò da cui può risultare un utile, finisce invariabilmente per generare merci (la politica, ad esempio, mira alla produzione della merce “consenso” e alla razionalizzazione spettacolare della conflittualità generata dal sistema).
Il fare poesia, invece, nel contrapporsi al mondo del lavoro, si conosce come spreco, dissipazione, inconcludenza sovrana.

Nell’ambito della poesia, i segni non producono, perché rappresentano il culmine e la morte della dimensione ideologica che riproduce il pensiero e le manifestazioni del pensiero. Poesia, quindi, come il culmine che conosciamo nella dissipazione ingovernabile del nostro amore per la vita.

Anarchy2nd_01_71Colui che fa poesia non ha altra ragione all’infuori della sua mancanza di ragioni. La ragione è quel castello di scuse che restiamo ad ammirare mentre ci crolla addosso. Niente, proprio niente può portarci al di là delle cose, se non scavalchiamo il muro di cinta di quel mondo mediocre in cui ci siamo reclusi. La nostra sovranità, il nostro sentirci sovrani in un mondo liberato dei fantasmi morali, ci deve indurre finalmente alla gioia e all’incessante srotolamento della poesia. La strada maestra verso l’estremo del possibile è stata appena tracciata. E non possiamo tirarci indietro, se vogliamo sentire veramente la vita. L’abisso in cui ci accucceremo sarà l’epicentro del desiderio. Il resto, tutto quello in cui vogliono farci credere e che ha il valore della morte, non è altro che un mercato, un coacervo di mediazioni: commercio “prosaico” dei luoghi comuni.

La poesia ha una sua serietà, ma solo in ciò che le parole non possono dire. Se il silenzio deriva molto spesso da una mancanza di parole opportune, il parlare e lo scrivere, a loro volta, possono risultare addirittura importuni. Il fare poesia non va ridotto ad una semplice cernita di parole. La parola pone il senso di una misura, in quanto non eccede mai la propria “normalità”, i proprî significati acquisiti (in un tale impaccio, non potendo dire tutto, dice male l’eccesso). Il superamento dei significati dell’esistente si ha soltanto nello spreco di ciò che li porta. Lo spreco è l’eccesso inconcludente: l’eccesso volutamente non riducibile ad una logica produttiva.

Il nostro desiderio di tutto e di ogni dove, quando riusciamo davvero a formularlo, rimane sempre male espresso. Vogliamo conoscere la totalità delle cose, ma non siamo mai capaci di dirla, almeno non fino in fondo, perché c’è sempre un punto in cui la ragione viene meno (e che non è uno spiraglio): un punto che può solo rappresentare l’oggetto mai vissuto di un qualcosa di sovranamente insensato.
Ben magra consolazione, il giocare a rimpiattino con le parole, quando non tutto il dicibile ci è proprio. L’aver dato un nome alle cose ci aliena la possibilità di distruggerle realmente o di farle nostre per sempre. La “parola” appartiene alla storia e noi siamo comunicati soprattutto dalla storia delle nostre parole.

Infilare-una-mano-Mangone-Asinamali-2015La poesia, se non viene fatta contro tutti coloro che la ostacolano, si rivela ben poca cosa. Essa deve potersi manifestare al di là delle scritture; andando oltre, molto più distante nel rischio, e ponendosi, in ogni destino possibile, verso una nuova carne poetica.
La “carne” di cui parlo sorge dal percorso accidentato che ci conduce fino al punto ben preciso in cui la consapevolezza di esistere solo per la morte si confonde con una gioia estrema. Questo nodo è la condivisione, la Comune amorosa dove io non vengo più parlato dai luoghi comuni, bensì dagli affetti, dalle semplicità accorate, dalle relazioni che costruiscono voci, foci, giacigli.
Tra una parola e l’altra ci sono dei vuoti; vuoti che non hanno storia, ma che rappresentano la possibilità ulteriore che tiene il mio corpo d’uomo. Il fare poesia muove da questa possibilità, da quest’oscura possibilità che mi va gettando nel mondo.

Le mie parole, ancora una volta, dicono un qualcosa che non è tutto. Il senso definitorio e definito delle parole non raggiunge mai la definizione ultima. Proprio per questo, la parola finisce per assumere spesso, sulla scena capitalistica, un valore di scambio che rende quasi sempre virtuale il contenuto semantico che essa porta o dovrebbe implicare. La democrazia rappresentativa (l’invasione mediatica, l’affollamento in luoghi comuni, la neolingua) ha solo reso più banale e moderatamente diffuso il consumo delle parole. Il linguaggio dell’uomo “comune”, ridotto ai minimi termini da una semplificazione funzionale del proprio corredo segnico, si rivela il linguaggio della banalità democraticamente deliberata.
La poesia deve ridiventare randagia. Il Libro non può rinchiuderla. Andate per il mondo, costruite decisioni, perdete le definizioni del potere. La vostra unicità sarà un seme per le terre ulteriori. Non preoccupatevi di chi l’innaffierà, occupatevi dell’aratura.
La poesia – il nero che mi rende le stelle – è sempre altro, oltre, ma mai altrove.

1993-2015

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