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Ho sempre pensato che non siano il dolore e la sofferenza ad accrescere realmente il saper vivere, bensì la gioia e la prospettiva della gioia.
Intendiamoci, io ho sofferto e soffro come gli altri (sono incline alla depressione, ad esempio), ma non faccio di questa sofferenza una chiave, un alibi o una condanna.
Detto questo, se un vivente decide di farla finita perché non ha più la po(e)tenza per affrontare un suo specifico “male di vivere”, voi dovreste avere almeno il buon gusto di ammirare il coraggio di chi sceglie l’irreparabile perché ritiene ormai insignificanti le vostre presunte riparazioni.

Non si esce dai loop sacrificali, cristiani. Il dolore, il dolore, il dolore… Vaffanculo al dolore e anche alla morte! Onore invece a chi decide di volare – senza remissione – verso i buchi neri della materia andando in culo pure al dispiacere degli altri! Il dispiacere degli altri non è il mio piacere, fatevene una cazzo di ragione.

I miei presunti simili vogliono farsi accettare dagli altri attraverso l’ostensione della propria alienazione. Guai dunque a non partecipare al loro smarrimento! Il loro vero terrore è che qualcuno venga a sottrargli il comfort (e il conforto) di una comune alienazione. Per me, invece, possono ficcarsi in culo (con o senza vaselina) il giudizio che nasce dalle stimmate che si autoinfliggono per compiacere la sofferenza generalizzata.

La rivoluzione ha fallito perché non ha posto la gioia al centro delle preoccupazioni umane e oltreumane, ma solo un basso e comune godimento delle cose materiali. Il comune non sarà mai la misura del godimento unico, indecoroso, scostumato. I processi rivoluzionari devono smetterla di fare sconti a chi voglia incanalarli. Nel suo desiderare anche ab errantia, Sade resta molto più dirompente di Marx, almeno idealmente, perché non si attarda a fare economia del proprio desiderio. Il comune deve diventare la mancanza di misura del godimento e accogliere nel proprio seno tutti i disertori della verità facile. Deve farsi com-unicità, comunanza delle unicità, ripetizione comune delle rispettive singolarità.
In una tale prospettiva, sorgono però questioni ineludibili, essenziali: qual è il limite della mia mancanza di misura? Come si costruisce una com-unicità? In quali territori fisici e mentali può innescarsi una consonanza, una continuità – tendenzialmente gioiosa – tra me e l’Altro?

Io ho costruito il mio pensiero e le mie visioni dell’esistente a partire da una massa di informazioni, schemi, abitudini ed errori che mi è stata consegnata dai Padri e dalle Madri dell’umanità. Non diversamente da chiunque altro, ho dovuto assecondare questo passaggio, questo affido, almeno finché non si è andata sviluppando in me una personale capacità critica.
Le narrazioni storiche del mondo sbozzano l’arredo emozionale e affettivo del singolo. Attraversando idee e luoghi, maturiamo poi un nostro andamento critico lungo lo snodarsi degli eventi. Ed è proprio grazie alla critica – intesa come autonomia di pensiero nel divenire del mondo – che giungiamo alla consapevolezza della nostra unicità.
Il processo critico di costruzione e sviluppo dell’unicità può avere molto di singolare, ma niente di separato. L’unicità è come un taglio nell’infinito srotolamento delle relazioni – l’emergenza di un ritmo jazz delle particelle – la semplicità che diventa l’opposto della parsimonia – uno choc gentile, costruito, irreplicabile, che fa una tacca, ogni volta, lungo il movimento generale del nostro vivere.
Quindi: l’unicità è l’irruzione del senso, l’addensamento migliore e sempre effimero di tutti i possibili in uno spazio riconoscibile, aperto, ma non necessariamente cartografabile.

Il godimento della vita non risiede banalmente nella costruzione di una durata del sé, quanto semmai nella ricerca di esperienze uniche e toccanti dentro lo spazio delle relazioni. Il taglio dell’inquadratura è essenziale. Niente invalida il movimento, la ricombinazione, ma occorre sapersi collocare amorosamente lungo le sequenze che emergono. Saltar fossi, non scavare trincee. La poesia è un nomadismo dell’affetto, non un decoro dell’esistente.

 

Laureana Cilento, 6 giugno 2019. Foto mie.